Come rinascere per vivere meglio

  1. Ciò che diciamo principio

spesso è la fine, e finire

è cominciare.

(Thomas Stearns Eliot)

La depressione arriva e s’insinua nella vita di chi ne soffre in modo lento e graduale e, a poco a poco, divora la voglia di vivere. L’apatia, la stanchezza, la fatica di prendersi cura di sé, la perdita di piacere e di interesse per la vita, l’isolamento e il bisogno di stare soli sono solo alcuni dei sintomi di questo stato emotivo.

Pochi disagi ricordano da così vicino la morte e ci mettono in contatto con il vuoto e la mancanza di senso. Si precipita nel passato,vi si implode dentro e non resta spazio né per il presente né per il futuro.

Ma la depressione, come qualsiasi sintomo o stato di crisi, contiene in sè il seme dell’opportunità e della rinascita.

La depressione diventa una modalità che protegge dall’entrare in contatto col male che fa questa antica ferita. Paradossalmente, preferiamo ammalarci che ammettere di non essere stati amati in modo soddisfacente e che molte scelte attuali della nostra vita sono legate a doppio filo a questo passato.

Paradossalmente, proprio contattando la sensazione di annientamento, si può tornare a trovare il gancio con la realtà, accorgendosi di essere vivo e di poter compiere scelte attive verso la propria trasformazione ed evoluzione. Manifestando il dolore e la rabbia per il torto subito, smettendo di negare ciò che è stato, torniamo ad essere noi gli unici responsabili della nostra vita. Individuiamo i nostri veri bisogni e li separiamo dai condizionamenti esterni, dicendo NO alle aspettative altrui e SI a noi stessi. Rinunciamo agli ideali di perfezione (solo se sono perfetto, sarò amato) e  impariamo a accettarci e amarci per ciò che siamo.

La depressione, come ogni sintomo, è un’alleata preziosa che ci indica la via smarrita per permetterci di ritrovare il nostro vero Sè, la nostra verità e forza interiore.

E’ un cammino estremamente doloroso, faticoso e impegnativo, ma alla fine di esso, smettendo di cercare approvazione nell’altro e rinunciando all’illusione che un giorno qualcosa o qualcuno ci risarcirà, impariamo a darci valore, ritroviamo il diritto di esistere, scopriamo di essere in grado di salvarci da soli.

Rinascita. Ma per risorgere, per rinascere ad un nuovo me stesso, ad una nuova combinazione unica ed irripetibile del nostro assetto interiore psichico e spirituale abbiamo bisogno che prima sia tramontato. Bisogna tramontare, morire, cadere, per vedere l’alba del nuovo giorno. Nietzsche lo sapeva bene quando poeticamente scriveva “Amo coloro che tramontano”.

MA COME SI FA A STARE MEGLIO?

Attraverso la resilienza! Che cosa e’ la resilienza? Per resilienza si intende quando cadendo, ti pieghi ma non ti spezzi!Essa aiuta ad identificare le cause di un problema (affinché non si ripresenti più in futuro) e a controllare le emozioni e gli impulsi quando ci si trova in una situazione critica. Chi è resiliente, inoltre, ha anche un ottimismo realista, guarda positivamente al futuro, ha un’idea positiva della vita, ha la capacità di trovare sempre nuove sfide e nuove opportunità per raggiungere una maggiore soddisfazione.

D’altra parte, essere resilienti è sinonimo di buona salute (non solo fisica, ovviamente): le persone di questo tipo hanno una migliore immagine di se stesse, si criticano meno, hanno più successo nello studio e nel lavoro, incontrano più soddisfazione nelle relazioni e sono meno predisposte a soffrire di depressione, nonché maggiormente facilitate nell’uscirne. Il nostro corredo emozionale è ampio, si muove dalla gioia all’angoscia, e questo ha un significato. La cultura del sorriso, del pensiero positivo a tutti i costi, della felicità che ha imperversato negli ultimi decenni, ha tolto profondità alla vita psichica e spessore ai nostri stati d’animo. Inducendo a farci perdere contatto con parti di noi, sfuggendole o banalizzandole. Facendoci credere che la sofferenza vada solo curata, anestetizzata e annullata. Indagini recenti mostrano invece che le esperienze traumatiche smuovono, nella maggioranza dei casi, una rinascita psicologica positiva. Dopo un trauma, per quanto devastante, possiamo migliorare la nostra vita, e vivere esperienze di miglioramento che certe volte si rivelano intense come relazioni più profonde, senso di forza interiore, individuazione di nuove possibilità per la propria esistenza.

Si parla a tal proposito di rinascita post-traumatica. Secondo gli psicologi statunitensi Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun, dell’università del North Carolina, il trauma smuove un progresso personale quando riesce a sfidare le convinzioni, le credenze consolidate nel tempo. Abbiamo bisogno di scuotere e smantellare la nostra visione del mondo, la nostra stessa identità, per ricostruirci in modo nuovo. Più vacilliamo, più lasciamo andare le idee e ripartiamo da zero, meglio possiamo riorganizzarci per inseguire altre opportunità, aprire nuove vie.

Dopo perdite importanti, eventi avversi, accadimenti “sismici” – dal punto di vista psicologico -possiamo elaborare ciò che è successo, e arrivare, proprio attraverso lo sconforto, a vederci come non lo abbiamo mai fatto, a formulare domande alle quali non siamo mai arrivati. Lo smarrimento ci costringe a riesaminare il modo di pensare, di dare peso alle cose, può farci evadere dalla banalità degli stessi pensieri. La sofferenza permette di costruire nuovi obiettivi, schemi, significati. Di essere creativi. Soprattutto può offrire l’occasione di ricostruire noi stessi in modo più autentico, più fedele al nostro Io e al suo percorso di vita. Che è unico.

Ma alcuni psicologi, hanno scoperto che un evento destabilizzante può portare con sé anche benefici significativi. Secondo uno studio cominciato negli anni ’90 da Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun, ricercatori della University of North Carolina, la rinascita post-traumatica coinvolgeva il 70% dei pazienti che, sopravvissuti ad un trauma, stavano affrontando una trasformazione psicologica positiva: possono crescere empatia ed altruismo, portando il soggetto ad agire di più nell’interesse del prossimo; si può sviluppare un senso di forza interiore legato, di conseguenza, a relazioni più gratificanti e anche, in alcuni casi, allo sviluppo di una maggiore consapevolezza spirituale.

Il termine “crescita post-traumatica” è stato coniato negli anni ’90 dagli psicologi Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun per descrivere i casi di persone che avevano vissuto una profonda trasformazione mentre affrontavano diverse tipologie di trauma e situazioni di vita difficili. Circa il 70% dei sopravvissuti ad un trauma ha riportato una crescita psicologica positiva, come ha rivelato la ricerca.

La crescita dopo un trauma sia fisico che psichico può assumere forme diverse, inclusi una maggiore riconoscenza verso la vita, l’individuazione di nuove possibilità per la propria esistenza, di nuovi sentieri, relazioni interpersonali più gratificanti, una vita spirituale più ricca e una connessione con qualcosa di più grande, un senso di forza interiore.

DOPO UNA FORTE SOFFERENZA SI PUO’ DAVVERO RINASCERE?

Com’è possibile che dopo la sofferenza possiamo non solo ritornare al nostro stato precedente, ma anche migliorare profondamente le nostre vite? E perché alcune persone restano schiacciate da un trauma, mentre altre rifioriscono? Tedeschi e Calhoun spiegano che la crescita post-traumatica, in qualunque forma si presenti, può essere “un’esperienza di miglioramento che per alcune persone si rivela molto profonda”.

I due ricercatori dell’Università del North Carolina hanno creato il modello più diffuso finora per descrivere il processo di crescita post-traumatica. Secondo tale modello, le persone sviluppano naturalmente e si affidano ad una serie di credenze e supposizioni che si sono formate sul mondo. Per far sì che dopo il trauma ci sia una crescita, l’evento traumatico deve necessariamente sfidare tali convinzioni. Secondo Tedeschi e Calhoun il modo in cui il trauma distrugge la nostra visione del mondo, le nostre opinioni e la nostra identità, equivale ad un terremoto, le fondamenta dei nostri pensieri e delle nostre convizioni vanno in mille pezzi a causa della forza dell’impatto traumatico subito. Siamo scossi, quasi letteralmente, dalla nostra percezione ordinaria delle cose e ci tocca ricostruire noi stessi e il nostro mondo. Più vacilliamo, più lasciamo andare le nostre precedenti identità e convinzioni e ripartiamo da zero.

Un evento psicologicamente “sismico” può far vacillare, minare o ridurre in macerie molte delle strutture schematiche che hanno guidato la nostra comprensione delle cose, le nostre decisioni e il senso che diamo al mondo.

La ricostruzione fisica di una città che avviene dopo un terremoto può essere paragonata all’elaborazione cognitiva ed alla riorganizzazione che un soggetto vive subito dopo un trauma. Una volta che le strutture di base dell’io sono state sconvolte, siamo pronti per inseguire nuove (e forse più produttive) opportunità.

Il processo di ricostruzione funziona un po’ così: dopo un evento traumatico, come una malattia grave,la perdita di una persona cara o un abbandono, i soggetti elaborano l’accaduto intensamente, pensano continuamente a quello che è successo e generalmente hanno reazioni emotive molto forti.

È importante notare che la tristezza, il dolore, la rabbia, l’ansia sono reazioni molto comuni al trauma e la rinascita si presenta insieme a tali emozioni contrastanti, non al loro posto. Il processo di rinascita può essere considerato come un modo per adattarsi a circostanze particolarmente avverse e per comprendere sia il trauma che i suoi effetti psicologicamente negativi.

La ricostruzione può essere un procedimento incredibilmente impegnativo. Il lavoro di crescita richiede un distacco, un allontanamento dagli obiettivi più radicati, dalla propria identità, dalle proprie supposizioni mentre si costruiscono nuovi obiettivi, nuovi schemi e significati. Può essere un percorso arduo, atroce ed estenuante. Ma può aprire la porta ad una nuova vita. Una persona sopravvissuta ad un trauma inizia a riconoscere i propri progressi e rivede la propria definizione di sé per adattarsi alla forza e alla saggezza che ha scoperto di possedere. È una persona che può ricostruire se stessa in un modo più autentico, più fedele al suo io profondo e al suo percorso di vita unico e scegliere relazioni piu’ appaganti.

Rinascita  creativa.

Una perdità può tradursi in una rinascita creativa. Ovviamente è importante notare che il trauma non è necessario né sufficiente alla creatività. Le esperienze traumatiche sono sempre tragiche e psicologicamente devastanti, a prescindere dal tipo di rinascita creativa che ne consegue. Queste esperienze possono condurre ad una perdita a lungo termine, ma portare anche ad una conquista. Infatti spesso la perdita e il guadagno, la sofferenza e la rinascita, coesistono.

Dato che le avversità ci costringono a riesaminare le nostre convinzioni e priorità, possono aiutarci ad evadere dal nostro abituale modus pensandi incoraggiando la creatività, come spiega Marie Forgeard una psicologa del McLean Hospital e della facoltà di Medicina di Harvard, che ha condotto una lunga ricerca sulla rinascita post-traumatica e sulla creatività.

Siamo obbligati a riconsiderare le cose che abbiamo sempre dato per scontate, siamo costretti a pensare a cose nuove e a persone nuove. Gli eventi negativi possono essere così forti da obbligarci a formulare domande a cui altrimenti non saremmo mai arrivati.

La creatività può diventare anche una sorta di strategia per gestire l’esperienza difficile. Alcune persone potrebbero scoprire che l’esperienza traumatica le costringe a mettere in discussione le loro idee sul mondo e quindi a pensare in modo più creativo. Altri potrebbero scoprire di avere una nuova (o rinnovata) motivazione ad impegnarsi in attività creative. Altri ancora, che hanno già un forte interesse di base per il lavoro creativo, potrebbero trovare nella creatività il modo migliore per ricostruire la propria vita.

 Si muore tutte le sere, si rinasce tutte le mattine: è così. E tra le due cose c’è il mondo dei sogni.

(Henri Cartier-Bresson)

Il narcisista e la tossicodipendenza: c’e una relazione?

Nel paziente narcisista e’ presente la negazione del bisogno degli altri e l’orgoglio di questa autosufficienza, oltre ad una distorsione della dimensione temporale che si esprime nel sentirsi troppo giovani o troppo vecchi, raramente consapevoli della propria eta’ reale. Nel narcisista le emozioni di odio, invidia e rabbia esplodono con improvvisa violenza, emozioni scisse e indifferenziate, la parte buia,l’ ”Ombra”, la cui integrazione risulta particolarmente dolorosa essendo in netto contrasto con la grandiosa immagine di se’. L’individuo identificato con l’archetipo del ‘puer aeternus” mostra un’incapacità di vivere nel presente, un rifiuto della dimensione spazio-temporale, della routine del vivere quotidiano, del lavoro, delle responsabilità e dei sacrifici, percio’  della vita intesa come ripetizione e processo. L’individuo identificato con l’archetipo del puer non vive quindi nella realtà e nell’azione ma in un mondo di fantasia, nell’attesa di un “giorno fatidico” in cui tutto avverrà. Nel frattempo tale individuo e’ quasi “sospeso” in una dimensione fuori tempo, conducendo una “vita provvisoria”, effimera, in una sorta di eterna aspettativa che lo fa vagheggiare di meravigliose possibilità future mai adempiute. Da qui deriva il vissuto di statica immobilita’ del “puer aeternus” che si configura come un’immagine distaccata e fredda, inaccessibile e perfetta, ma bisognosa dell’ammirazione degli altri,di figure che possano rispecchiare ammirandolo, senza disturbare. La grandiosa autosufficienza del puer, il suo immobilismo, sono esemplificate dalla figura di Narciso.

Un’ aura di passività e morte, indolenza e autoerotismo circonda Narciso, incapace di compiere il viaggio eroico, perso in un legame mai sciolto con la madre – inconscio che qui si identifica con la morte dell’Io.

Ma accanto al polo depressivo la duplicità archetipica si esprime nel puer attraverso l’oralità maniacale,la fretta,l’avidita’. La sopravvalutazione narcisistica impedisce sia il contatto umano sia la cura nei confronti di se stesso poiché, una forza archetipica non mostra alcuna attenzione per la sua incarnazione umana. La tossicodipendenza permette una condizione di autosufficienza, dove l’oralita’ si compendia nell’assunzione della sostanza psicotropa, “oggetto ideale” che elimina qualsiasi altro bisogno, compresa la nutrizione. Nel tossicodipendente ritroviamo l’ambiguita del mito e quindi dell’archetipo, il tentativo di superamento della dimensione umana e la morte, l’iperinvestimento del corpo e la sua negazione, la fuga che si immobilizza di fronte alla propria immagine.

Il tossicodipendente può a volte definirsi come partner di una relazione sadomasochistica in cui l’assunzione di sostanze psicotrope avviene su richiesta dell’altro, come segno di ribellione verso i genitori e l’autorità in genere.

Si potrebbe inoltre dire che il puer stabilisce relazioni di ‘tirannia’ tramite le quali entra in contatto con la sua “Ombra” proiettata.

Ma la contrapposizione ingenuità-crudelta’ può rimanere agevolmente all’interno della psiche dell’individuo per il quale, ci può mostrare di se’ due opposte facce, con tranquilla indifferenza – poiché – non lo tormentano i problemi etici, cosi tipicamente umani.

L’opposizione purezza -ferocia e’ una tematica valida per lo studio delle tossicodipendenze.

In conclusione, la tossicodipendenza e’ un tipo di organizzazione “narcisistica” delle strutture infantili che indebolisce e puo totalmente eliminare la parte adulta della personalità dal controllo del comportamento. La struttura interna del tossicodipendente e’ costituita da parti “buone” del Se’ tenute in stato di “passività” nei confronti di parti “cattive” del Se’. Tale asservimento a modalita’ ciniche di pensiero può trovare espressione ‘nella perversione di qualsiasi modalità’ di relazione o di attività nel mondo esterno. Nelle tossicodipendenze quindi possiamo supporre una “struttura narcisistica difensiva”: egli ‘agisce’ una lesione nei confronti di se’ stesso mostrando una notevole negazione dei pericoli cui va incontro. La “scissione” della personalità può essere presente nell’assunzione di una doppia identità sadomasochistica-masochistica in cui il tossicodipendente ‘agisce’ una persecuzione e allo stesso tempo la ‘subisce’.

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Le relazioni d’amore disfunzionali e funzionali:ecco il perche’

Chiamiamo amore un generico sentimento di attrazione non solo fisico ma anche emotivo che ci spinge a legarci ad una certa persona, magari ad intravedere con questa una certa affinità intellettuale o emotiva o, nei casi più estremi, a sentirla come qualcuno con cui ci si capisce “al volo” quasi senza parlare.

In un modo o nell’altro, dunque, nella persona di cui ci innamoriamo sentiamo di “riconoscere”qualcosa; da qualche parte avvertiamo, implicitamente e intuitivamente, che c’è un’alchimia che ci suona nuova e familiare al tempo stesso.

Quello che riconosciamo come amore tuttavia non è sempre fonte di gioia e gratificazione; a volte può essere un sentimento che ci lega in una relazione disfunzionale in cui continuiamo a soffrire e ad essere insoddisfatti.

Nelle relazioni amorose tendiamo a ritrovare e a riproporre schemi del passato, che hanno connotato i rapporti con alcune figure significative per la definizione del nostro senso di sicurezza e di identità; siamo talmente abituati, per implicito, a definirci all’interno di queste dinamiche per noi “familiari” da tendere spontaneamente e quasi senza accorgercene a ricercarle e a ricrearle anche con i partner che ci scegliamo nella vita adulta.

Ecco perché, ad esempio, l’amore può essere vissuto come un’attrazione emotivamente ambivalente in cui si mescolano il vecchio e il nuovo: una persona appena incontrata che ancora non conosciamo e che tuttavia ci attrae e ci fa sentire bene in un modo che ci suona “confortevole” perché ha qualche cosa di familiare.

In un amore sano questi aspetti possono integrarsi proficuamente e, se i due partner hanno le risorse emotive per accettare anche le reciproche differenze, è possibile che l’incontro d’amore ci porti a ritrovare qualche cosa degli affetti del passato ma nel contesto di una nuova e più soddisfacente modalità di relazione e di scambio affettivo.

La vera relazione d’amore  e’ funzionale perché è in grado di aiutare i due partner a crescere e ad evolvere con maggior soddisfazione per sé stessi e per la coppia che hanno formato.

 Una relazione d’amore può essere disfunzionale quando invece tiene i due partner uniti in un legame entro il quale si ripetono alcuni aspetti insoddisfacenti delle relazioni affettive del passato, relazioni che non ricreiamo volontariamente, ma che riproponiamo quasi in automatico perché, nonostante ci causino molta sofferenza, sono in qualche modo “familiari” ed emotivamente adeguate ad assegnarci un ruolo in cui implicitamente ci riconosciamo.

Ecco che allora, anche cambiando partner numerose volte, potremmo sorprenderci a ritrovarci in situazioni sentimentali insoddisfacenti e, da questo punto di vista, dolorosamente somiglianti.

Si parla tanto, in questi anni, di violenza domestica e di unioni di coppia fondate sulla violenza dove i reciproci ruoli – l’abusatore e la vittima – confermano dolorosamente i partner nella credenza di non potersi definire psicologicamente se non in rapporto ad un altro da possedere e/o da cui dipendere.

L’amore può rivelarsi disfunzionale anche in forme meno estreme di questa, ogni qual volta riconosciamo, dietro ai fallimenti e alle delusioni di cui può essere costellata la nostra vita affettiva, le stesse insoddisfazioni, gli stessi problemi che hanno tormentato un rapporto che avrebbe altrimenti dovuto fornirci serenità, gioia e gratificazione.

È forse arrivato il momento di interrompere un ciclo che tende a ripetersi troppo uguale a sé stesso… A volte questo accade grazie ad incontri imprevisti e particolarmente fortunati che deviano la nostra vita affettiva verso svolte impensate. In altri casi è necessario contattare ripetutamente quella stessa sofferenza per prendere consapevolezza del prezzo che paghiamo e intraprendere un cambiamento talvolta attraverso un percorso di consulenza psicologica o di psicoterapia.

 Il riconoscimento è il primo passo, che sembra scontato ma non lo è. In questo senso la violenza fisica, di cui rimangono i segni sul corpo, non lascia alcun dubbio sulla violenza subita, ma se il partner mette in atto tutta una serie di manipolazioni, insinuazioni, denigrazioni sottili, tutto questo assume una veste di ambiguità che è anche difficile da capire, interpretare. E spesso le donne interpretano, decodificano in modo erroneo alcuni segnali.

“Mi chiama in tutti i momenti della giornata, vuole sapere con chi sono, cosa sto facendo…quanto ci tiene a me!”.

Arrivare a capire che più che attenzione verso l’altro è un bisogno di controllo non è proprio immediato.

“Non vuole che esca con la mia amica, che vada in palestra, è molto geloso…quanto mi vuole bene!”.

Questo non è proprio amore, ma piuttosto possesso dell’altro.

In questo caso il partner e’ una persona che ha dei problemi nell’area delle relazioni, cioè una persona che funziona normalmente da un punto di vista cognitivo, lavorativo ma ha delle grandi problematiche nelle relazioni e nell’affettività e che in termini tecnici rientrano nei Disturbi di personalità, soprattutto nell’area del Narcisismo.

Nella fase iniziale solitamente è un grande seduttore; queste storie spesso nascono all’insegna dei grandi corteggiamenti, grandi adulazioni, attivando un grande coinvolgimento del partner che si sente da subito molto coinvolto e ha la sensazione di vivere il rapporto più importante della vita. Il narcisista riesce così a instillare l’idea che lui solo sa che cosa l’altro veramente vuole, di che cosa ha veramente bisogno. Lei lo lascia fare, magari si sente lusingata: nessuno l’ha mai capita così. Il narcisista costruisce la sua tela, lentamente, non svelandosi immediatamente per quello che è, ma cercando di portare la sua preda ad uno stato totale di sudditanza psicologica. È ben accorto dallo svelarsi immediatamente, lo fa quando si rende conto che l’altro ormai è totalmente dentro la relazione. Avendo la dinamica perversa lentamente e impercettibilmente eroso e disorientato il senso critico della «vittima», quando il vero e proprio maltrattamento comincia a manifestarsi proprio la «vittima» non è in grado di riconoscerlo. La perdita della capacità di fare un sicuro esame della realtà è, infatti, una delle conseguenze della relazione con un narcisista perverso: una delle più dolorose.

Narciso è un uomo che vuole specchiarsi nello stagno e guardare la propria immagine riflessa, cioè l’altro deve rimandare la sua immagine. L’altro non esiste come entità a sé stante, ma serve soltanto a rimandare la sua immagine. Per il narcisista gli altri sono vissuti come persone che non hanno un’esistenza o dei bisogni propri e la difficoltà a stare in relazione si manifesta nell’incapacità di provare sia gratitudine che rimorso,o di colpa, che è sempre dell’altro, nell’incapacità di ringraziare e di chiedere scusa.

È importante chiarire che non tutti i narcisisti agiscono la violenza psicologica. L’elemento che determina la violenza oltre al narcisismo è l’aspetto della perversione. Il perverso, nell’usare l’altro, implicitamente lo disprezza, lo sminuisce in quanto ha bisogno di trasformare la relazione in rapporto di forza e di potere.

Lo scopo del narcisista perverso è quello di controllare l’altro, ma non soltanto di fargli mettere in atto un certo tipo di comportamenti, ma ancor più di controllarlo dall’interno, di cambiare il suo pensiero, il suo modo di essere. L’obiettivo è quello di esercitare quindi un potere, la relazione con un partner narciso è una relazione di potere, dove non c’è reciprocità, perché l’altro non è visto nella sua identità, riconosciuto per quello che è, ma soltanto per quello che gli serve cioè dare conferma della sua identità. Quello che accomuna tutti i narcisi descritti è la totale mancanza di empatia di sentire le emozioni che l’altro prova, di sentire e riconoscere i suoi bisogni più profondi. Il narcisista tratta l’altro come un oggetto, come una cosa da possedere. Può mettere in atto meccanismi di controllo, cercherà di limitare il tempo che la partner trascorre in modo autonomo, l’altro alla fine deve fare e essere come lui vuole.

Le denigrazioni, le critiche molto spesso sono alle sue idee, alle sue scelte, mettendo in dubbio le sue capacità critiche. Tutto questo ovviamente anche in modo ambiguo, dicendo una cosa e poi negando di averla detta, alludendo ma non dicendo chiaramente, per cui è più difficile difendersi da qualcosa che non risulta esplicito, chiaro ma contraddittorio. E allora quando cominciano le critiche da parte di lui, sempre vaghe, non contingenti, la donna cerca di reagire, ma si sente allora accusare di essere troppo sensibile, di non essere sicura di sé. Non può parlarne, non sa come affrontare il problema: lui banalizza, infatti, ogni tentativo che lei fa di parlare di ciò che avviene nella relazione, squalificandola. Così lei tace, e in questo modo finisce per isolare sé stessa e proteggere lui. Poi gli attacchi si moltiplicano, si passa alla derisione, agli insulti, alle minacce, financo alle accuse di essere una persona che “mente”. La donna comincia a pensare, anche perché è questo che lui le suggerisce, di essere lei quella sbagliata, quella che non capisce, e cerca di adeguarsi alla situazione, di farvi fronte in qualche modo e paradossalmente e’ costretta a mentire rimanendo nel suo gioco perverso.

E siccome alla base c’è appunto un sentimento di poco valore, nel momento in cui l’altro va a confermare questo sentimento interno di non valore, la donna se lo prende e si colpevolizza, si attribuisce la responsabilità di ciò che non va all’interno della relazione. Come dire, se il mio partner è così aggressivo nei miei confronti è perché io ho fatto qualcosa di sbagliato. Entrambi i partner hanno lo stesso problema alla base, sentire di valere poco, ma il Narcisista lo nega, non lo riconosce, ha però bisogno dell’altro per mantenere alto il senso di sé, per non sentire il suo vuoto interiore.

La dinamica allora si incastra perfettamente, perché se da un lato c’è qualcuno che si colpevolizza, dall’altro invece c’è un altro che non si attribuisce mai la colpa ma che al contrario la riversa all’esterno da sé, sul partner, sui familiari, sul mondo intero. A un certo punto accade qualcosa che lei non avrebbe mai pensato di poter sopportare: lui, ad esempio, la offende davanti agli altri, oppure la minaccia, oppure spacca davanti a lei oggetti a cui lei tiene…e lei si rende conto, diversamente da come aveva pensato prima, di potere sopportare. Il limite è ormai spostato, e lei potrà sopportare ancora e ancora. Gli uomini provano, dopo questi episodi, calma, calo di tensione, uno strano stato di tranquillità.

Il passo successivo è l’isolamento: la donna nasconde ciò che realmente accade fra loro, fino ad un certo punto anche a se stessa, finendo con il proteggere il partner che la maltratta. Soprattutto l’isolamento è fondamentale perché lo scopo è quello di far si che la donna perda tutta la rete di relazioni affettive (familiari, amicali, terapeutiche) con l’obiettivo di poter continuare a perpetuare la sua azione di distruzione e di esercizio del potere in modo indisturbato. Come fa? Insinuando e mettendo zizzanie, alimentando i conflitti, screditando la partner o gli altri, a seconda di ciò che è più facile.

Il rendersi conto del maltrattamento, oltre che molto difficile sul piano cognitivo, è altrettanto difficile e doloroso su quello emotivo perché significherebbe ammettere che il rapporto di coppia, quel rapporto che sembrava così importante, è fallito, che lui non è quello che lei aveva pensato che fosse e la donna in fondo lo sa. Anche perché il perverso relazionale non manca completamente di empatia, ma l’empatia, quando è presente, è totalmente asservita alla strategia controllante-premurosa/punitiva.

La donna adesso ha paura. Teme il rimprovero, la battuta sarcastica, la minaccia espressa a bassa voce e in tono cupo, oppure gridata durante un’esplosione di collera. Fa di tutto per rabbonire il compagno, ogni suo sforzo va in questa direzione. Farebbe qualunque cosa pur di strappargli un sorriso, un cenno di assenso, un’approvazione. Mette in atto delle strategie “preventive” per evitare le sue reazioni.

Tutti questi comportamenti, ripetuti quotidianamente nel tempo, producono nel partner una vera e propria sindrome, con disturbi psicosomatici, ansia,attacchi di panico, stati depressivi, perdita dell’autostima di non valere niente, uso degli psicofarmaci e quindi vanno chiaramente ad incidere anche nelle attività lavorative. Queste modalità di violenza psicologica tendono ad uccidere  la psiche anche per la loro azione ripetuta nel tempo perché quello che poi spesso caratterizza queste relazioni è anche la difficoltà ad uscirne, quindi si mettono in atto dei tentativi di chiudere il rapporto, poi magari si torna insieme, con un effetto yo-yo, perché subentra un aspetto fondamentale che è quello della dipendenza che poi è una dipendenza reciproca, agita in modo diverso dai due partner nella dinamica relazionale. In tutti i rapporti affettivi c’è una quota di dipendenza che a che fare con il legame, con l’importanza che l’altro riveste nella nostra vita. In questi casi però la relazione porta all’annullamento di sé e al vivere in funzione dell’altro. Si parla oggi di nuove dipendenze, cioè di dipendenze in cui si ha un rapporto con l’altro come il “tossicodipendente” ha un rapporto con la sostanza. E questi sono dei rapporti in cui ognuno dei due è funzionale all’altro, cioè la dipendenza è reciproca.

Mentre le relazioni intime di tipo funzionale sono caratterizzate dalla sicurezza, dal prendersi cura dell’altro e anche di se stessi, dalla collaborazione e cooperazione nel raggiungimento di scopi comuni e da valori condivisi (es. sostenere l’altro nelle sue scelte, essere onesti e fidarsi dell’altro, ecc.), le relazioni disfunzionali, invece, si nutrono di sfiducia, insicurezza, egoismo e scarso decentramento, disonestà e sfiducia nell’altro, gelosia, sino ad arrivare a vere proprie richieste eccessive, abuso di potere e controllo da parte di uno dei due partner. Questo tipo di relazioni non alleggerisce il carico emotivo che quotidianamente tutte le persone sono costrette a gestire ma appesantisce, deprime, rende infelici e infine porta a lungo andare ad un vero e proprio esaurimento emotivo.

Le persone che si trovano a dover gestire una relazione disfunzionale, di solito, sono poco consapevoli dei cicli interpersonali e dei circoli viziosi che autoalimentano ma anche del perché siano costantemente alle prese con partner e legami poco disfunzionali. La conoscenza e la consapevolezza di sé stessi è sempre il primo passo verso il cambiamento. Riconoscere che siamo “invischiati” in una relazione che porta dolore e sofferenza alla propria vita richiede un grande sforzo (molte sono infatti le persone che continuano a negare la disfunzionalità della propria relazione anche quando familiari o amici li mettono davanti alla realtà dei fatti). Inoltre, i meccanismi di cui si è parlato finora non sono esaustivi dell’enorme mole di studi sull’argomento. Tanti sono i fattori che intervengono quando si parla di relazioni disfunzionali e dell’incapacità di porre fine a tali relazioni: scarsa autostima, senso di indegnità e vulnerabilità, cicli interpersonali, incapacità nell’operare scelte adattive e funzionali sia dal punto di vista relazionale che dal punto di vista personale, scarse abilità nel riflettere sui propri e altrui stati mentali per riuscire a padroneggiare la propria sofferenza in modo adattivo, ecc.

Il supporto di un professionista (psicologo, psicoterapeuta) potrebbe aiutare le persone a prendere consapevolezza dei meccanismi precedentemente elencati e attraverso la relazione terapeutica dimostrare loro che non è vero che “non possono sperare di meglio”, non è vero che “meritano quel tipo di relazione” che hanno imparato ad accettare l’amore che pensano di meritare.

In sintesi, l’asimmetria in una relazione affettiva dipende dalla differente importanza tra i due della coppia, attribuita agli scopi raggiunti attraverso l’altra persona. Inoltre, il dipendente ritiene o ha realmente meno alternative alla sua relazione rispetto al partner, e poco potere sull’altro nell’indurlo a soddisfare i propri scopi. Da tale punto consegue, che quanto più è presente dell’insicurezza che il partner soddisfi i propri obiettivi (mancanza di potere – affettivo, denaro, carisma, ecc.) tanto più si è dipendente da questi.

Inoltre va fatto presente che fino a quando si riterrà che il partner prima o poi soddisferà le nostre aspettative si è portati a mantenere il ruolo di sottomissione e di particolare disponibilità verso i sui bisogni, con l’obiettivo illusorio di vincere le sue resistenze e sperare nell’eventuale soddisfacimento dei propri.

Vediamo che l’asimmetria relativa alla dipendenza non è altro che un’asimmetria di potere all’interno della coppia, dove chi detiene il potere maggiore può facilmente cadere nell’approfittamento o addirittura nello “sfruttamento” del proprio partner, anche se quasi sempre inconsapevolmente.

Nella relazione affettiva gli scopi che si raggiungono attraverso l’altro, hanno una valenza particolarmente forte, poiché riguardano il raggiungimento dell’appagamento del bisogno d’attaccamento e d’amore in primo luogo, mentre in secondo luogo riguardano la progettualità, la famiglia, i figli, il fare delle cose assieme, ecc., ecc..

E’ utile precisare che, mediante le relazioni in generale e in quella amorosa in particolare, noi raggiungiamo se stessi, di fatto l’altro è il “mezzo” attraverso il rimando del quale noi ci percepiamo, sentiamo il senso della vita. La reciprocità rappresenta una sorta di dinamismo dove ognuno, in un certo qual senso, s’alambicca per avere il maggior ritorno d’apprezzabilità, di considerazione, insomma di conferma d’amabilità personale.

Nella relazione affettiva l’asimmetria è una condizione frequentemente presente, ed è proprio questa che crea il malessere di coppia e quindi la sua disfunzionalità.

Talvolta, inoltre, a contribuire alla maggiore dipendenza dei due componenti della coppia si presentano le condizioni più disparate. La maggiore dipendenza è funzione delle alternative disponibili, vale a dire la possibilità di avere le stesse gratificazioni al di della relazione in questione, cioè sia se esiste la possibilità di poter fare riferimento ad altre persone differenti dal partner, sia alla possibilità di sentirsi facilmente in grado in futuro di poter soddisfare gli scopi dipendenti dall’altro, anche se nel presente ci si trova in una reale condizione di dipendenza.

Per capire se una relazione ha i presupposti per definirsi è sana, devono essere presenti i seguenti parametri: 

– L’apertura verso l’altro deve avvenire in modo lento e graduale, rivelando di se aspetti maggiormente positivi che negativi e esprimendo pian piano e con sincerità le emozioni e l’affetto. 

– La vicinanza all’altro si crea in modo progressivo, incrementando gradualmente il tempo da trascorrere insieme, così da poter costruire una maggiore familiarità. 

– Le dimostrazioni di amore, empatia e affetto, vanno esternate in modo coerente rispetto allo stadio della relazione in corso. 

– L’impegno da dedicare al rapporto e la fiducia da accordare all’altro, si decidono insieme e gradualmente e attraverso una costante negoziazione.

– La presenza di interessi sia comuni che individuali, è molto importante perché permette alla coppia sia la condivisione di esperienze comuni, che lo scambio delle proprie esperienze individuali, considerate elemento di novità e ricchezza per la coppia. 

– La compatibilità nella coppia si raggiunge attraverso una graduare inter-penetrazione delle attività, la negoziazione e il rispetto dei valori, anche se non sempre condivisi. 

– Il contatto fisico deve avvenire in modo naturale e positivo, sviluppando progressivamente una intimità e sessualità che portano al benessere, e favorendo rituali di interazione e sincronicità nei comportamenti.

– La salvaguardia di una autonomia individuale, anche quando si sta in coppia, è molto importante perché permette che ogni persona possa portare fuori il meglio dell’altra e che possa aiutarla a raggiungere degli obiettivi individuali non relativi al rapporto. 

– L’esperienza del conflitto è necessaria e deve poter avvenire con toni moderati e con una bassa frequenza, la sua funzione è quella di far evolvere la relazione verso una crescita, laddove questa può essersi bloccata. 

– La comunicazione deve poter essere chiara e aperta, così che ognuno si senta capito e libero di esprimersi senza remore. 

Quando ci si discosta sia per eccesso che per difetto da questi parametri, si possono creare delle relazioni disfunzionali, dove il malcontento di almeno uno dei due, se non di entrambi è frequente. In questi casi, prima di arrivare a situazioni estreme di conflitto e malessere, si può chiedere aiuto ad uno psicoterapeuta che può aiutare la coppia a trovare nuove modalità più funzionali che la aiutino a capire se e come poter continuare a stare insieme.

Infine mentre nelle relazioni intime di tipo funzionale sono caratterizzate dalla sicurezza, dal prendersi cura dell’altro e anche di se stessi, dalla collaborazione e cooperazione nel raggiungimento di scopi comuni e da valori condivisi (es. sostenere l’altro nelle sue scelte, essere onesti e fidarsi dell’altro, ecc.), le relazioni disfunzionali, invece, si nutrono di sfiducia, insicurezza, egoismo e scarso decentramento, disonestà e sfiducia nell’altro, gelosia, sino ad arrivare a vere proprie richieste eccessive, abuso di potere e controllo da parte di uno dei due partner. Questo tipo di relazioni non alleggerisce il carico emotivo che quotidianamente tutte le persone sono costrette a gestire ma appesantisce, deprime, rende infelici e infine porta a lungo andare ad un vero e proprio esaurimento emotivo.

 

 

L’ASSENZA DELLA GENITORIALITA’

“Insospettate forze mortifere possono passare da una generazione all’altra e trasmettere ai bambini la convinzione che il loro destino è di accettare la loro non-esistenza, agli occhi dei genitori, come individui separati” (McDougall)

Lo Psicoanalista Fornari ipotizza a tal fine l’obiettiva ricerca di “indicatori di idoneità genitoriale”:

  sostegno alla crescita, attraverso atteggiamenti di tenerezza, comprensione e accoglienza;

  •   approvazione e incoraggiamento durante i processi di crescita, di autonomizzazione e di allontanamento;
  •   sostegno e approvazione nel processo di presa di distanza emotiva, normativa e relazionale;
  •   capacità di non erogare ricompense che servano a rinsaldare un legame di dipendenza o mantenere intatto l’accudimento che conserva e non trasforma;
  •   legittimazione dell’impresa che si va a compiere o che si è appena compiuta;
  •   capacità di evitare atteggiamenti di collusione, nutrimento, rinforzi narcisistici, intimità invischiante, potere di esorcizzare il vuoto, il nulla che può esserci in noi;
  •   capacità di tenere ben distinti i ruoli amichevoli, coniugali da quelli parentali;
  •   capacità di richiamo costante al principio di realtà e al concetto di limite;
  •   capacità di riconoscimento, di rispetto e di reciproca tutela dei rispettivi ruoli genitoriali.
  •             Egli aggiunge che l’adulto competente è colui che:
  •          incoraggia l’autostima
  •           favorisce la presa di coscienza dei bisogni e dei desideri e delle loro possibilità concrete di realizzazione;
  •                 aiuta a distinguere tra un sogno o una meta idealizzata e la costruzione di un progetto concreto, garantendo la possibilità di sostegno in caso di richiesta o di necessità e arginando le fughe in avanti o i ripiegamenti passivizzanti e deresponsabilizzanti.
  • Il complesso funzionamento della società moderna produce inevitabili ripercussioni sulla genitorialità: alcune funzioni di sostegno allo sviluppo si sono complicate e altre necessitano una maggiore attenzione rispetto al passato. Di conseguenza, il sostegno all’attuale complessità genitoriale si fonda sulla possibilità di individuare le competenze genitoriali presenti in madre e padre, ed eventualmente anche in altre figure familiari di supporto, in modo da poter potenziare o rendere flessibili quelle che risultano maggiormente importanti in alcune particolari condizioni di vita e nelle specifiche fasi evolutive attraversate dai figli.
  • Le funzioni della Genitorialità

l significato del termine “genitorialità” è, in questi ultimi anni, continuamente in evoluzione. Sempre maggiore diventa la sua complessità e sempre più ramificato il suo intrecciarsi con altri aspetti della ricerca clinica e psicologica.

La crescita umana è fatta di stadi che si ripetono continuamente nel corso della vita e che le diverse fasi evolutive dei figli riattivano bisogni ed angosce che fanno parte della propria storia evolutiva.

Una concezione più psicologica vede invece la genitorialità come parte fondante della personalità di ogni persona. E’ uno spazio interno che inizia a formarsi nell’infanzia quando a poco a poco interiorizziamo i comportamenti, i messaggi verbali e non-verbali, le aspettative, i desideri, le fantasie dei nostri genitori. Riprendendo il termine di uno dei precursori di questo concetto, Eric Berne, abbiamo un “Genitore Interno” che è formato da tutte le interazioni reali e/o fantasmatiche con le figure adulte significative che si sono occupate di noi. Da questo “Genitore Interno” dipendono in gran parte i nostri giudizi su noi stessi e i modelli relazionali che usiamo per rapportarci con gli altri. Le teorie dell’attaccamento sono su questa linea.

La genitorialità, questa “funzione autonoma e processuale dell’essere umano” rappresenta il momento evolutivo più maturo della dinamica affettiva in cui convergono tutte le esperienze, le rappresentazioni, i ricordi, le convinzioni, i modelli comportamentali e relazionali, le fantasie, le angosce, i desideri della propria storia affettiva. E come ogni compito evolutivo, come ogni stadio è una fase della propria crescita psicologica e relazionale contrassegnata da ambivalenze, difficoltà, contraddizioni, ricerche, crisi, integrazioni, frammenti..

Il termine genitorialità quindi non coinvolge l’essere genitori reali ma è uno spazio interno autonomo che fa parte dello sviluppo di ogni persona. Ovviamente, l’ evento reale della nascita di un figlio, attiva in un modo particolare e molto intenso questo spazio mentale e relazionale, rimettendo in circolo tutta una serie di pensieri e fantasie legati in particolare al proprio essere stati figli, alle modalità relazionali ritenute più idonee, ai modelli comportamentali da avere.

LA GENITORIALITA’ presuppone un insieme di funzioni dinamiche e relazionali che rappresentano gli aspetti evolutivi del percorso maturativo della persona. “Prendersi cura di” e quindi maturare il desiderio generativo è uno degli stadi della crescita umana. Esso non presuppone la nascita di un figlio reale ma è uno spazio mentale e soprattutto relazionale dentro il quale convergono la nostra  storia affettiva, il nostro mondo degli affetti, i nostri legami di attaccamento, il nostro mondo fantasmatico, il nostro narcisismo, il senso che ha per noi la nostra esistenza, il nostro sentirci parte di una storia, la nostra differenziazione sessuale, la nostra capacità di vivere relazioni pluri-dinamiche ( e di non essere chiuso in una relazione duale), il nostro rapporto con le regole e il sociale, la nostra capacità di contenere e regolare gli stati emotivi, la nostra capacità di cambiare e di essere cambiato, il nostro sentirsi unico e irripetibile, autonomo ed indipendente e nello stesso tempo bisognoso di “essere pensato da qualcuno”.
Il fatto che un bambino per crescere abbia bisogno di un papà e di una mamma sembrava fino a non molto tempo fa qualcosa di scontato e condiviso da tutti: ora sembra non essere più così, o almeno non è più così per molti. L’incremento dell’instabilità coniugale, la diffusione di famiglie monogenitoriali, l’esperienza della genitorialità sempre più vissuta come una scelta e un diritto individuale, la diffusione di forme familiari alternative e il dibattito sui diritti delle coppie omosessuali mettono seriamente in discussione tale affermazione.

C’e’ un fondamento psicologico al bisogno di padre e di madre per ogni essere umano, per arrivare poi a fare qualche cenno alle conseguenze dovute all’assenza o inadeguatezza delle figure genitoriali nello sviluppo psicologico del figlio e alla necessità di eventuali figure genitoriali sostitutive.Se da decenni la letteratura psicologica ha ampiamente sottolineato l’importanza del legame di attaccamento con la madre quale fondamento del benessere psichico del figlio, gli studi più recenti hanno evidenziato anche l’importanza della funzione paterna man mano che il figlio o la figlia crescono, a motivo della necessità di regole e di orientamento verso l’autonomia che, specie dall’adolescenza in poi, divengono fondamentali. Possiamo dire, in altre parole, che la genitorialità si esplica nella cura responsabile nei confronti del figlio che coniuga sia aspetti di cura, protezione, affetto e speranza, tipici della funzione materna, sia l’aspetto della norma, del senso di giustizia e di equità riferibile alla funzione paterna.

A questo secondo aspetto è connesso il compito di orientamento dei figli, cioè l’offrire loro una sorta di “bussola” interiore, un insieme di criteri, che comunemente chiamiamo valori, cui essi possono riferirsi nelle situazioni della vita e su cui sono chiamati a operare una scelta, una volta divenuti adulti

Dunque, lungo il percorso di crescita dei figli, la compresenza di un codice affettivo materno e di un codice etico paterno è fondamentale per garantire un’equilibrata evoluzione dell’identità personale: pertanto, madre e padre giocano ruoli e funzioni diverse e complementari nella crescita dei figli, pur modificandosi nel tempo a seconda dell’età dei figli. La cura responsabile è in tutti i casi compito congiunto della coppia genitoriale: nella società contemporanea la divisione dei ruoli genitoriali è molto meno rigida rispetto al passato e la funzione paterna e materna risultano svolte oggi, con modulazioni diverse, da entrambi i membri della coppia genitoriale.

Le funzioni materna e paterna sono infatti per alcuni aspetti interscambiabili: sempre più frequentemente si incontrano madri che esercitano anche alcuni aspetti della funzione paterna e viceversa padri che svolgono parte della funzione materna (es.: aspetti legati all’accudimento), soprattutto oggi dove la presa di distanza dai modelli normativi del passato conduce i padri ad allinearsi maggiormente alle modalità di relazione tipicamente femminili-materne.

Di fatto, nell’attuale contesto socioculturale, vengono maggiormente enfatizzati gli aspetti affettivi e di accudimento, mentre la funzione etico-normativa è lasciata più sullo sfondo. È tuttavia essenziale, oggi come ieri, che nella coppia siano presenti entrambe le risorse della cura (l’affetto e la norma) poiché l’impoverimento dell’uno o dell’altra portano inevitabilmente a situazioni problematiche, e in certi casi gravemente disfunzionali, per il figlio. Dunque le funzioni materna e paterna si radicano certamente alla persona del padre e della madre, ma al tempo stesso le trascendono.

Solo l’amore può bastare?Facendo leva proprio su questo aspetto, molti traggono la conclusione che ciò che è davvero importante sia la qualità delle relazioni familiari, indipendentemente dal fatto che vi siano un padre e una madre: crescere in un ambiente sereno, privo di conflittualità e improntato al dialogo e al rispetto sembra, agli occhi di molti, essere più decisivo rispetto alla presenza concreta di un padre e di una madre. D’altra parte, la realtà ci insegna che è effettivamente possibile crescere anche senza un genitore: l’esperienza di numerose famiglie in cui anche non per scelta, ma per un’avversità del destino, una figura genitoriale è venuta a mancare, può testimoniare che, pur nella fatica della perdita e dell’assenza – che va comunque affrontata ed elaborata — i figli possono crescere sani e sereni anche con la sola madre o il solo padre.

In realtà, e soprattutto se ci mettiamo dal punto di vista del figlio, dobbiamo riconoscere la “necessità” per ogni essere umano di un paterno e di un materno o meglio proprio di “quel padre” e di “quella madre”. Se c’è infatti un dato indiscutibile su cui non si può obiettare, è che per nascere, “quel figlio” ha bisogno di “quel padre” e di “quella madre”.
Pertanto il figlio, nel tempo per strutturare la propria identità personale, ha bisogno di riconoscersi nel suo punto di origine che è sempre frutto di uno scambio tra quel materno e quel paterno che lo hanno generato. Non c’è identità senza un’origine. In altre parole non riusciamo a rispondere esaurientemente alla domanda “chi sono io?” senza far riferimento alla nostra origine, ossia al padre e alla madre che ci hanno generato.

Dunque, poter fare riferimento sul piano della realtà a due genitori, ovvero a quel padre e a quella madre nella loro essenziale unicità e, attraverso di loro, alle due stirpi familiari è una condizione necessaria per dare un fondamento reale e non immaginario alla propria identità. Ne è prova l’angoscia di chi, per i motivi più diversi, non ha accesso alle proprie origini, non sa o non di rado è impedito od ostacolato nella conoscenza, come sono per esempio i casi di adozione.

Fin qui abbiamo evidenziato sinteticamente come il bisogno di padre e di madre, anzi di “quel padre” e di “quella madre” sia inscritto in ciascun figlio, non solo nel suo Dna ma anche nel bisogno di relazione che è tipico di ogni essere umano e fondamento della sua struttura psichica. Il piccolo dell’uomo si apre alla vita solo ed esclusivamente in un contesto di relazioni che gli assicurano protezione e cura, e nel tempo attraverso il rispecchiamento gli permette di capire chi è e di strutturare la sua identità.

Il genitore “capace”

Non esiste un modo considerabile a-prioristicamente giusto per essere genitori capaci.

Ogni genitore stabilisce con il figlio un tipo di relazione specifica, in base non solo al proprio senso di sé ed al proprio significato personale (Guidano, 1992) ma anche alla modulazione del legame di attaccamento che con il figlio si struttura sin dai primi momenti della sua vita.

Come nei primi anni la spiccata propensione a strutturare un’intensa reciprocità emotiva con i genitori appare come il vincolo ontologico alla base di ogni possibile ordinamento dell’esperienza, per il bambino il legame genitoriale mantiene le stesse caratteristiche fondamentali di decodifica della realtà nel processo di costruzione del senso di sé, della sua personalità, lungo tutto il suo percorso evolutivo fino all’età adulta.

Nel parlare di capacità genitoriali si tiene in considerazione sia la disponibilità a garantire nel tempo una prossimità fisica con il proprio figlio sostenendolo nei suoi bisogni materiali, sia la capacità di strutturare e mantenere un legame affettivamente significativo, emotivamente caldo, che funga in qualsiasi momento evolutivo del bambino da base sicura.

L’idoneità genitoriale viene definita quindi dai bisogni stessi e dalle necessità dei figli in base ai quali il genitore attiverà le proprie qualità personali, tali da garantirne lo sviluppo psichico, affettivo, sociale e fisico.

Il parenting si propone come una competenza articolata  che comprende l’accoglimento e la comprensione delle esigenze primarie (fisiche e alimentari), che invece riguarda le modalità con cui i genitori preparano, organizzano e strutturano il mondo fisico del bambino, che include tutti i comportamenti che i genitori attuano per coinvolgere emotivamente i bambini in scambi interpersonali. Inoltre che posseggano la capacità di rispondere alle richieste, la capacità di mantenere un’attenzione focalizzata, la ricchezza del linguaggio e il calore affettivo.

Non è superfluo sottolineare l’importanza delle cure genitoriali che i bambini ricevono nell’infanzia come base del loro benessere emotivo e affettivo attuale e di gran parte di quello futuro.

Gli ambienti caratterizzati da conflitti perduranti e accesi che coinvolgono direttamente il figlio o lo espongono alle minacce e alle violenze verbali e/o fisiche tra i genitori, infatti, sottopongono a così grave minaccia il benessere emotivo del bambino/a da richiederne, a volte, il suo immediato allontanamento, o l’allontanamento del genitore disfunzionale, violento.

Inoltre è necessario comprendere quanto e come la famiglia sa rispondere alle condizioni di stress relazionale e quali sono i significati che il figlio assume agli occhi dei genitori.

Non è raro, infatti che in situazioni dove è gravemente compromesso il benessere del bambino emerge come egli rappresentasse per il genitore maltrattante l’oggetto di un conflitto irrisolto o l’espressione di un fallimento personale o quant’altro era vissuto dal genitore stesso come invalidante per l’immagine di sé e delle proprie capacità.

In termini operativi si può affermare che la validità genitoriale dipende tanto dalla capacità di promuovere nel figlio nell’arco dell’infanzia quelle competenze necessarie al bambino/a per sviluppare una rappresentazione del genitore come capace di offrire sicurezza e protezione e una corrispondente immagine di sé come efficace e degno di amore, quanto dalla capacità di evitare che i figli stabiliscano nel tempo modalità di adattamento magari efficaci nel presente, ma che a lungo tempo estremamente dannose (si pensi al bambino/a che si adatta positivamente alle molestie sessuali ricevute dal genitore, ad esempio per paura di maltrattamenti fisici o di procurargli dispiacere rifiutandosi), perché tali modalità verranno ripetute in altri contesti diventando una risposta coerente ma altamente disadattiva alla relazione con adulti e coetanei.

Altrettanto importante, nella gestione delle situazioni quotidiane di cura e come base per il processo di modellamento attuato dagli “adulti che si prendono cura”, è l’assertività, che consiste nella capacità di esprimere in modo adeguato pensieri ed emozioni, sia positivi che negativi, facendo e ricevendo critiche o complimenti. Questa capacità di non essere né passivi, né aggressivi è un’abilità genitoriale che permette di insegnare e trasmettere modelli di comunicazione in grado di favorire la possibilità di stabilire legami affettivi sicuri, divenendo equilibrati e indipendenti. 

L’assertività è sostenuta, a sua volta, da livelli sufficientemente buoni d’indipendenza che si manifesta con una capacità dei genitori di compiere le attività abituali, sia di accudimento che personali, senza dover ricorrere costantemente ad aiuto o protezione di altri (es. proprie figure genitoriali). Questa caratteristica, infatti, consente di svincolarsi dal bisogno di ottenere l’approvazione altrui e sostiene la capacità di prendersi delle responsabilità delle proprie azioni, favorendo la trasmissione di forme di attaccamento sicuro nelle figure accudite. 

Un’altra dote importante nelle figure di cura è l’autostima, che consiste nella valutazione che un genitore fa su se stesso sulla base di idee e opinioni personali. Un buon livello di soddisfazione di sé, infatti, rende più socievoli, equilibrati, tolleranti a frustrazioni e conseguentemente capaci di risolvere i problemi posti dalla genitorialità. Una figura affettiva di riferimento dotata di buona stima di sé tende ad essere stimolante da un punto di vista interpersonale e a non attribuire ai figli, come ad altre persone, le proiezioni delle proprie convinzioni negative su se stessa. 

Particolarmente utile, nei genitori e nelle figure che si prendono cura di bambini e ragazzi, può essere anche l’apertura mentale, ossia l’atteggiamento di curiosità con cui ci si avvicina ad esperienze nuove, tollerando idee e culture diverse, aspetti che sostengono la capacità dei genitori di insegnare ai propri figli a vivere sia esperienze positive che negative e di sopportare anche ciò che è meno familiare. 

Strettamente connessa a questa caratteristica è l’empatia che permette di riconoscere, davanti ai figli, i sentimenti e le prospettive altrui, in modo da stimolare la capacità di mettersi nei panni degli altri, necessaria per vivere legami affettivi dotati di stabilità. 

Nel contesto degli elementi che compongono le competenze genitoriali un posto importante può essere attribuito alla capacità di socializzazione che vede alcuni genitori più propensi a stabilire relazioni e ad amare la compagnia, impegnandosi in attività sociali che rappresentano, direttamente o indirettamente, uno stimolo per la salute psico-sociale dei figli, raffigurando un esempio e un’occasione per coltivare il piacere di stare con altri sviluppando competenze sociali. 

In modo simile appare importante la presenza, in un genitore, della capacità di stabilire legami affettivi o di amore che consente di sostenere un sano sviluppo evolutivo sviluppando nei figli le relazioni interpersonali e ostacolando la crescita di problemi relazionali e di patologie connotate o alimentate dall’isolamento. 

La presenza di una buona stabilità emotiva consente di contenere, nelle figure genitoriali, gli stati di tensione associati alle esperienze emotive forti, come quelle di conflitto o in grado di produrre disagio. Attraverso tale modello di calma e pazienza, le figure di accudimento possono creare un clima evolutivo poco teso e, al contempo, trasmettere esempi di atteggiamenti che sostengono la possibilità di affrontare difficoltà e di superare il dolore. 

Anche la flessibilità aiuta i genitori ad adattarsi e a mostrare possibilità di accomodamento a situazioni inaspettate o nuove. Le figure educative che possiedono buoni livelli di tale pregio, infatti, si muovono consapevoli che non esiste un solo modo per fare le cose e manifestano, insegnandola ai giovani osservatori, la capacità di negoziare soluzioni ai problemi, assumendo più punti di vista e cambiando, quando necessario, le proprie opinioni. 

Mediante la riflessività è possibile insegnare, alle persone di cui un genitore si prende cura, la pianificazione delle azioni in modo previdente e tale da poter perseverare verso i propri obiettivi, considerando a priori buona parte dei vantaggi e degli svantaggi di una scelta. Tale atteggiamento perciò è molto importante per i genitori di giovani adolescenti, ma lo è anche per sostenere nei bambini il passaggio dall’impulsività di un’azione al pensiero che la può precedere. 

L’assenza nella relazione genitori-figli:quando lo sguardo non vede

– La riflessione che intendo qui proporre si focalizza sul tema dell’assenza, declinata nella relazione genitori-figli ed intesa non come mancanza in senso “fisico” di un genitore (dovuta ad esempio a morte o abbandono), ma soprattutto come assenza psicologica, come carenza nelle capacità genitoriali, come difficoltà da parte dell’adulto di garantire al figlio una presenza attenta ed uno sguardo che permetta a quest’ultimo di sentirsi riconosciuto ed accettato. Ma “come si può soffrire per l’assenza di chi è presente?” (Kundera, 1997, p.48).

Spesso si poteva osservare una difficoltà nel rendersi pienamente disponibili e nel mettersi in gioco, come se si configurasse una presenza (fisica)- assenza (mentale) o una presenza “intermittente”, poco costante non solo dal punto di vista temporale, ma anche da quello affettivo, che non permetteva di rispondere in modo adeguato ai bisogni psicologici, affettivi ed emotivi del minore. Spesso si riscontra anche, in diversi casi, la difficoltà da parte degli adulti di vedere ed accettare i figli con i loro pregi e difetti e la tendenza ad avere in mente un ideale di come questi dovrebbero essere (l’avvicinamento più o meno forte a questo ideale da parte di questi ultimi indirizzava spesso le reazioni di apertura o allontanamento da parte del padre o della madre, e arrivava anche ad un ritiro della propria presenza affettiva); parallelamente, nei minori e’ presente la sensazione di non essere “visti”, come se ci fosse da parte loro la consapevolezza che l’attenzione fosse focalizzata principalmente sulla contesa e sul conflitto.

Sembra che lo sguardo del genitore rimanga fisso su di sé, sulla propria immagine, sui propri bisogni, senza lasciare spazio a nient’altro al di fuori di questo. E’ importante ricordare, a questo proposito, che i genitori sono i più esposti al lavoro del lutto, dal momento che c’è un inevitabile scarto tra il figlio immaginario, ideale, e quello reale; deve essere quindi mantenuto un equilibrio adeguato tra la gratificazione, l’investimento, le aspettative che si nutrono e i sentimenti di delusione e frustrazione che necessariamente si sperimentano per arrivare all’accettazione del figlio, come individuo altro da sé. La rinuncia al bambino fantasticato, come colui che deve appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi genitori (Freud, 1914) appare quindi una tappa fondamentale, che permette di mantenere un giusto bilanciamento tra investimento narcisistico (amore di sé nell’altro) ed investimento oggettuale.

Quanto, in casi come questo, viene deformata l’immagine che viene restituita ai figli dai genitori? Non solo la madre, ma l’intera famiglia deve infatti svolgere una funzione di “specchio”, che dia senso agli affetti e ai vissuti dei figli, che rimandi il senso di essere sé stessi e del proprio schema corporeo, che permetta la costituzione di una propria “pelle psichica”. Uno specchio che rimandi l’immagine dell’altro, in questo caso del figlio, arricchita dal proprio sguardo. Quando invece lo specchio rimanda un’immagine distorta allora viene trasmesso ciò che i genitori non hanno potuto elaborare, caratterizzato dall’assenza di parole. “La trasmissione transgenerazionale, in alcuni casi, si costituisce a partire da ciò che è fallito e da ciò che è mancante nello psichismo dei genitori” che va così a costituire dei “fantasmi” che favoriscono, nel bambino, meccanismi di scissione e che ostacolano in primo luogo la possibilità di pensare, favorendo la mistificazione e la confusione.

Viene insomma impedita al minore la possibilità di essere autenticamente in relazione, un riconoscimento del suo essere separato e della sua indipendenza “come un’entità a pieno diritto” (Winnicott, 1971).

Perche e’ importante il rapporto padre-figlio?

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Uno studio della European Psychoanalytic Association rivela che i padri italiani sono gli ultimi in Europa: giocano in media solo 15 minuti al giorno con i propri figli.

Secondo questa ricerca i papà quando tornano a casa si siedono davanti alla tv anziché dedicarsi ai propri figli oppure giocano al computer o alla play station.

Bisogna ricordare però che il rapporto padre-figlio si costruisce fin dalla prima infanzia.

Il rapporto tra papà e figlio maschio è di centrale importanza per la crescita di un bambino, anche se spesso questo legame finisce col venire banalizzato, o addirittura considerato superfluo. Il ruolo della madre è di certo prominente nei primi mesi di vita, poiché la sua figura di protettrice-nutrice fa sì che vengano a crearsi i presupposti per un rapporto simbiotico che ad uomo è di norma precluso.Tuttavia, la figura paterna assume rilevanza centrale non solo per favorire l’emancipazione di un figlio da questo dualismo (che in presenza di situazioni morbose rischia di sfociare nel patologico) bensì fin dai primi momenti di vita di un bambino.Essere un buon padre significa infatti anche sapere accettare un ruolo apparentemente comprimario, ma che in realtà è di importanza basilare nelle dinamiche familiari. Specialmente per un figlio maschio, per il quale l’uomo è imprescindibilmente chiamato a rappresentare il primo – nonché più importante – modello di riferimento.Se inizialmente il bambino cerca costantemente la madre infatti, a causa del suo ruolo che si rifà prevalentemente a compiti di accudimento e di sostegno, ciò non significa che il padre debba essere spettatore passivo della situazione. Anzi, è proprio nella sua “collocazione periferica” rispetto alla diade madre-figlio che l’uomo trova il significato più profondo ed importante della propria figura genitoriale.

Nel corso di questo secolo, in modo lento e differenziato, il ruolo del padre nella famiglia si è trasformato rispetto a qualche decennio fa, quando era presente una rigida individuazione tra maschile ed femminile, con inevitabili ripercussioni nei ruoli genitoriali all’interno del nucleo familiare.

Il padre contribuisce a definire l’identità del figlio, come altro da sé e dalla madre. Nel momento in cui il figlio si sente chiamato con il proprio nome e riconosciuto come altro, cioè con un proprio corpo, una propria pelle, un proprio pensiero, una propria individualità, può separarsi da quell’utero nel quale è stato contenuto e cresciuto e sentirsi nato. E’ questo uno degli aspetti fondanti del rapporto padri figli: la funzione paterna consente  la separazione dall’utero accogliente per entrare in un nuovo mondo; è la stessa funzione che consentirà all’adolescente prima e al giovane poi, di separarsi dalla famiglia ed entrare nel mondo sociale.Il padre con la crescita del figlio inizierà ad assumere una sorta di ruolo di traghettatore del figlio dalla madre verso il mondo esterno.Nel contesto del rapporto padre-figlio, la funzione paterna è stata molto valorizzata da Freud, che individuò la sua importanza soprattutto nei processi legati alla costituzione e all’elaborazione del conflitto di Edipo, allo sviluppo dell’identità sessuale, all’interiorizzazione di un codice etico e morale e allo sviluppo del Super-Io.
Il padre è il testimone della ferita iniziale, quella che rompe la simbiosi madre-bambino e aiuta il figlio a vivere in maniera strutturante le difficoltà della vita educandolo al desiderio. Senza di esso il figlio rimane nella simbiosi, nella stasi che gli impedisce di trasformare tale perdita da esperienza distruttiva a passaggio indispensabile per la costruzione della propria identità.

Ma quali sono le funzioni del papà?

Verso i 7-8 mesi il neonato impara gradualmente a riconoscere la madre come un’entità distinta da sé e comincia a riconoscere la figura paterna. Da questo momento, fino ai 7-9 anni, il padre assume un’importanza fondamentale per il figlio: se questo rapporto viene vissuto appieno, il bambino ha la possibilità di sopportare senza gravi traumi il distacco dalla fase simbiotica con la mamma, imparando a relazionarsi in modo sereno ed equilibrato con il mondo esterno.

In questa fase di scoperta, il papà diventa il simbolo di sicurezza per antonomasia, sia dal punto di vista materiale, sia dal punto di vista emotivo. L’approccio di un bimbo al mondo avviene solitamente in modo cauto e piuttosto diffidente, difatti tendenzialmente si impara prima a dire ‘no’ e poi a dire ‘sì’. Il papà diventa (o dovrebbe idealmente diventare) lo scudo fondamentale da interporre tra la paura e il pericolo percepito. Quando la figura paterna è assente, debole o non disponibile, questo meccanismo può alterarsi, lasciando il bambino spaesato e vulnerabile in un mondo vissuto come minaccioso e più grande di lui.

– E’ padre autoritario ma non autorevole che fallisce, perchè utilizza il distacco emotivo e la durezza per far rispettare le proprie regole perdendo così le opportunità educative che l’autorevolezza gli consentirebbe ma, soprattutto, non sfrutta quello che pare essere l’ultimo vantaggio che rimane ai genitori per essere ascoltati: l’amore.

– E’ il padre che si pone nei confronti dei figli come compagno di giochi rinunciando ai suoi doveri educativi. Egli diventa l’amico dei figli, ma un padre non è un amico, un padre è un educatore il quale per fare bene il suo lavoro si pone su un piano diverso dall’educando, ha un’autorità e deve avere lo spazio e la forza di prendere decisioni impopolari e forti, cose che un “amico” non può fare.

– E’ il padre materno che fallisce perché, pur occupandosi con dedizione ai figli, appiattisce il proprio ruolo in una mera duplicazione delle attività e delle modalità materne. Questo modo di essere fa mancare ai propri figli la figura virile di un padre che fa il padre con un suo stile, un suo metodo, una sua sensibilità. La valorizzazione e l’accentuazione di questa differenza è un patrimonio inestimabile per i figli che, conoscendola, avrebbero l’opportunità di cominciare lo straordinario viaggio verso la scoperta dell’altro, del quale, la scoperta del padre, è la prima tappa.Verso gli 8-9 anni, il padre aiuta a distinguere il bene dal male, trasmettendo i criteri di valutazione che corrispondono all’obbedienza/disobbedienza nei suoi confronti.

Il codice morale primitivo si forma, infatti, sulla base dell’esempio paterno e soltanto in seguito, con lo sviluppo e il consolidamento della personalità, sarà possibile modificarlo. La trasmissione di questo codice morale non avviene mai attraverso «prediche» e discorsi, ma solo ed esclusivamente con l’esempio.

Un padre che bestemmia davanti al figlio non potrà pretendere che il figlio faccia diversamente, perché con il suo comportamento avrà già dato un permesso implicito praticamente impossibile da ritrattare, se non modificando la propria condotta, lo stesso dicasi per un padre che beve o si droga. La crescita ed il continuo confronto con il mondo esterno porteranno, poi, il ragazzo a modificare con fatica le norme errate trasmesse da padri troppo autoritari, punitivi o rigidi e tale processo sarà ovviamente più difficile nel caso di padri immorali o delinquenti.

 Gli strumenti comunicativi a disposizione di un padre sembrano di fatto meno potenti rispetto a quelli che può vantare la madre. Se da una parte il ruolo della madre è di fatto insostituibile, dall’altra lo è anche quello del papà (parlando sempre di situazioni ideali ovviamente,) in quanto e’ possibile far crescere un figlio in maniera sana pur essendo padre single. Uno dei compiti più ardui dell’uomo è infatti quello di mediatore nei processi interattivi madre-figlio, ed è un’incombenza che raggiunge la massima rilevanza proprio nel suo essere “intruso“: si tratta infatti di un’interferenza, quella dell’uomo in questo dualismo, direttamente funzionale sia allo sviluppo autonomo del bambino, sia al “recupero” dal trauma dello svezzamento per la madre.Un buon padre dovrà dunque riuscire a trasmettere serenità alla propria compagna durante il naturale processo di distacco dal figlio, e parallelamente favorire l’emancipazione di quest’ultimo in maniera graduale. Ed è proprio all’interno di queste dinamiche che la figura del padre quale paradigma di riferimento per un figlio maschio, assurge alla posizione più elevata. Tuttavia, anche questo processo non sarà affatto privo di conflittualità. Se nei primi mesi di vita infatti il bambino non soffre la figura del papà, accettandola nella sua marginalità senza particolari angosce, viceversa col passare degli anni il figlio potrà sviluppare sentimenti contrastanti nei confronti del genitore maschio.Anche questo è perfettamente naturale: l’elitaria esclusività della coppia coniugale – un meccanismo integrativo nei confronti del bambino soltanto fino ad un certo punto, poiché a questo non saranno mai concessi i privilegi particolari che regolano le dinamiche del rapporto padre-madre – potrà generare frustrazione nel figlio, che sperimenterà il suo sentirsi parzialmente escluso (benché amato, ma in maniera chiaramente differente). E nello svilupparsi di questi processi, è proprio ai margini dell’adolescenza che il rapporto padre-figlio raggiunge la sua fase più delicata. Il papà sarà infatti chiamato a svolgere la duplice funzione di genitore amorevole e di primo argine educativo; si tratta di un periodo altamente probante, ma che determinerà il buon rapporto tra un figlio maschio ed il suo papà.

La mancanza di una guida autorevole.

La mancanza di una guida, di un punto di riferimento forte che insegni lo spirito di sacrificio e il senso di responsabilità può avere effetti negativi sui figli. Il maschio “senza padre”, se ne è privo fin da piccolo, fatica a sentire le proprie potenzialità maschili.

Il padre oggi è, come direbbe Recalcati, “evaporato” sotto la spinta di una società che ha posto al suo centro il profitto ad ogni costo. Una “società liquida” dove i punti di riferimento di qualsiasi genere sono completamente assenti e dove anche i modelli storici, come quelli religiosi, faticano non poco ad affermarsi o a mantenere le loro posizioni. Una società nella quale il senso del dovere ha lasciato il posto all’edonismo e parole come “autorità” ad esempio, sono rifiutate o semplicemente ignorate.

Ecco  alcuni comportamenti da evitare con i figli

  1. Evita di proiettare sui figli la tua ansia e insicurezza. I padri-chioccia, super attenti e protettivi, che cercano di occuparsi di tutto e di prevenire qualsiasi problema impediscono quel sano processo che rende autonomo e forte il figlio e gli sottraggono la possibilità di «allenarsi» in vista dell’inserimento nella rete sociale. L’ansia paterna rischia sempre di essere tradotta dal bambino nella paura di pericoli reali, provocando timori e insicurezze profonde e difficilmente rimovibili.
  2. No ai giochi di potere. I padri autoritario spesso rischiano di abusare del proprio potere, fino a diventare involontariamente despoti o crudeli: sono i padri che svalorizzano costantemente le madri criticando le loro modalità educative o di cura dei figli; padri stanchi che impongono il silenzio, il dovere e il rispetto finendo per soffocare il desiderio di libertà e indipendenza dei figli, trasformati in obbedienti soldatini. Queste dinamiche spesso stanno alla base della sindrome di opposizione, che si manifesta anche con atti antisociali importanti.
  3. Non metterti in secondo piano rispetto alla mamma. I padri che delegano tutto alla moglie ribaltano il piano di maturazione affettiva del bambino, che avrebbe invece bisogno di trovare in lui la forza e l’autorità sulle quali costruire la propria sicurezza.
  4. Non mostrarti incoerente/imprevedibile. I padri che prima permettono e poi proibiscono la stessa azione, o viceversa, provocheranno nel bambino delle reazioni di difesa da questa figura che non garantisce sicurezza, ma, al contrario, la minaccia perché trasmette imprevedibilità e lascia la sensazione di non sapere mai che cosa aspettarsi.
  5. Non umiliare. I padri che prestano più attenzione agli elementi negativi del figlio e li sottolineano senza riconoscere gli aspetti di potenzialità già presenti e sviluppati, provocano una profonda svalutazione e la sensazione di non essere mai all’altezza o sufficientemente competitivi rispetto al mondo esterno.
  6. Non mostrare comportamenti estremi per sembrare giovane. Cosi si rischia di presentare un modello in cui, (volendo fare il ragazzo, ricorrendo a mezzi/comportamenti estremi pur di far colpo), si genera nel figlio la tendenza all’imitazione, quando forse quest’ultimo non e’ neanche  ancora al corrente del pericolo che certe azioni comportano.

Dopo i 18 anni
In questa fase di età il più è fatto, e si raccolgono i frutti del lavoro degli anni passati. È il momento in cui ci si confronta, in cui un padre dovrebbe ascoltare il figlio e favorire sempre il dialogo, dovrebbe guidare il ragazzo nelle scelte scolastiche e lavorative, ricordandosi che deve dare soprattutto il buon esempio: i figli imparano da quello che il padre fa, diventando, possibilmente il polo degli ideali e delle ambizioni per il figlio stesso.

Uscire vittoriosi da questa sfida non è semplice, ed è di cruciale importanza un dialogo sano e continuativo. Si tratterà dunque di sviluppare un rapporto leale e sincero, pur tenendo sempre presenti i dovuti “paletti” che determinano la separazione della figura genitoriale da quella del figlio; una situazione comunicativa che possa sfociare in un confronto la cui conflittualità sarà funzionale alla ricerca del sé del ragazzo, ed allo sviluppo della sua autonomia non più solamente nelle vesti di figlio, ma finalmente di persona. Anche e soprattutto nella percezione che egli avrà finalmente di sé stesso come tale. Sarà proprio a questo punto che le situazioni di conflitto tra papà e figlio tenderanno a scemare – venendo interrotte quando il padre lo riterrà opportuno – per raggiungere, al termine di questo processo, la promozione di un paradigma comunicativo più maturo. Nella fattispecie, come si suol dire, “da uomo a uomo“.La figura del papà quindi non può e non dev’essere in alcun modo ritenuta secondaria per definizione, soltanto perché appare ad un primo esame come marginale rispetto al ruolo della madre; poiché sta proprio nella sua naturale “secondarietà” il segreto del suo successo.

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Il sorriso ha una forza inimmaginabile:e’ potente

 Nel mio silenzio anche un sorriso può fare rumore. (Lucio Battisti)

Nella fatica del tuo sorriso cerca un ritaglio di Paradiso. (Fabrizio De Andre’)

Non piangere per chi non merita il tuo sorriso. (Jim Morrison)

Non sapremo mai quanto bene può fare un semplice sorriso. (Madre Teresa di Calcutta)

Non sei mai completamente vestito senza un sorriso. (Detective Comics

Un giorno senza un sorriso è un giorno perso. (Charlie Chaplin)

Un sorriso può aggiungere un filo alla trama brevissima della vita. (Laurence Sterne)

Un sorriso è una carezza a fior di pelle… tenerezza… è quasi uno stato d’animo. (Nikita)

Un sorriso fa fare il doppio della strada di un brontolio. (Robert Baden-Powell)

Si arriva ad un punto in cui e’ necessario smettere di  rovinarsi la vita, cambiando il modo in cui si vedono le cose che ci circondano. E provare a dirsi: ”A partire da oggi, ho deciso di sorridere e di non permettere che niente e nessuno mi rovini la vita. Mi sono accorto che è un errore credere che la mia felicita’ dipenda da ciò che fanno o non fanno gli altri.”

Secondo un interessante studio della University of California, pubblicato sulla rivista Psychology Today quasi il 40% della nostra capacità di essere felici dipende dal semplice fatto di fare il passo decisivo e cambiare. Eppure, la maggior parte delle persone rimane aggrappata alle stesse situazioni e, di conseguenza, si rovina la vita.

L’ironia e’ il sale della vita, il pepe, il pinzimonio; è il colore essenziale della gioia del distacco, della capacità di ridere, di sorridere, di guardare le cose da un punto di vista disincantato; l’ironia consente di non aderire al dramma, consente di sdrammatizzare, per l’appunto, di alleggerire, di guardare i problemi appesi a un palloncino, il che aiuta sicuramente a risolverli.

 “Sorridi anche con un sorriso triste, perchè più triste di un sorriso triste c’è solo la tristezza di non saper sorridere”.

Sicuramente dobbiamo sorridere di più, tutti, nessuno escluso. Sorridere, sorridere, sorridere! Sorridere con gli occhi e con il cuore, non solo con un movimento delle labbra.

Facciamo in modo che quando sorridiamo ad un’altra persona brilli una luce particolare nei nostri occhi tale da trasmetterla perche’ sorridere è come rompere le barriere.

Un sorriso è una cosa semplicissima, eppure è sempre qualcosa che spiazza, è una forza potentissima che possediamo e spesso non ce ne rendiamo neanche conto.    

Esternare la gioia che portiamo dentro, esternare l’ottimismo che ci contraddistingue provoca in noi e nell’altro tutta una serie di effetti positivi.

Anche se a volte per sorridere bisogna sforzarsi, nei momenti di depressione e ansia, il sorriso può aiutare a sentirsi meglio, perché la nostra vita va di pari passo con le emozioni.

Cosa c’è di più bello di un sorriso? È un gesto così potente da far stare bene noi e gli altri.

Il sorriso ha tutto questo potere, ma a volte non riusciamo a sorridere neanche se lo vogliamo. I problemi, le critiche, le responsabilità e tanto altro possono offuscare il nostro sorriso con una grande tristezza. Anche quando non riusciamo neanche ad abbozzare un sorriso, sforzarci a farlo aiuta a superare più facilmente i momenti difficili.

Sforzarci di sorridere ha uno scopo importante: ci fa sentire meglio, ci permette di intravedere la luce in fondo al buio.

Può succedere anche a noi, quando non vogliamo preoccupare gli altri con i nostri problemi, di cercare o fingere di essere felici, mantenendo un atteggiamento positivo.

Dobbiamo imparare a far emergere il sorriso autentico, perché mascherarci ci farà soffrire ancora di più. Non smettere mai di sorridere, ma veramente. I sorrisi sinceri sono gli unici che funzionano, che mostrano la vera felicità.

Aiuta a superare l’ansia e la depressione: perche’ due sono i problemi  che affliggono la nostra società: ansia e depressione. I problemi ci fanno apparire tutto senza speranza, senza luce, senza colore. Dov’è finito il sorriso? Quello autentico?

Il sorriso ci rende più creativi. Sembra uno scherzo, ma è vero: il sorriso ci rende più creativi. Se, ad esempio, il vostro lavoro si basa sulla creatività o cercate un’ispirazione che fatica ad arrivare, o semplicemente provate difficolta’ a svolgere un certo tipo di lavoro, provate a sorridere; un sorriso rende la mente più vigile e attiva: perche’ il sorriso ci fa diventare più ricettivi. Tutte le nostre emozioni influenzano l’ambiente circostante. Se siamo tristi, tutto è grigio, ma se siamo felici e abbiamo un bel sorriso, andrà tutto meglio e saremo più capaci di interagire con gli altri.

Non aspettare di essere felice per sorridere. Ma sorridi per essere felice. (Edward L. Krame)

Il dolore che non si vede: il dolore psichico, cosa fare

Ricorda Freud. “La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine dall’ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra”.

Il dolore colpisce sempre nel corpo. Eppure nell’essere umano non colpisce solo il corpo in quanto organismo, poichè il dolore non è solo quello somatico ma è dolore anche quello psichico, quello che colpisce la mente. 

L’essenza della terapia psicoanalitica non è solo un’esperienza cognitiva, ma è anche e soprattutto una nuova esperienza emotiva, dove nella dinamica del transfert () e del controtransfert si rivivono e si nominano antiche relazioni in una nuova rete di significati che coinvolgono sia il paziente sia l’analista. In tale ricco intreccio di pensieri e di emozioni una certa quota di dolore psichico e inevitabile, ma in buona misura costituisce un’esperienza positiva e strutturante poiché consente di tollerare la sofferenza senza dover ricorrere a operazioni difensive comunque mutilanti l’interezza della persona e la comunicazione sia intrapsichica che interpersonale. L’essere umano è caratterizzato e condizionato da una serie di eventi biologici: la nascita, la dipendenza dai genitori,  i conflitti adolescenziali, l’immaturità sessuale, le malattie, la morte. Questi momenti suscitano conflitti, ribellioni, difese più o meno efficaci, che sono sempre intrecciati; tra loro nel corso dello sviluppo, per cui ogni conflitto successivo rimanda al precedente. Ogni stadio può essere un momento organizzatore della vita psichica. In ogni fase ci spetta però il difficile compito di distinguere la sofferenza patologica prodotta dall’ansia e dall’angoscia a fronte dei singoli eventi della vita rifiutati o temuti, da quella fisiologica legata all’accettazione degli eventi che devono essere vissuti sia negli aspetti frustranti, sia in quelli gratificanti. Lo psicoanalista deve avere una particolare attenzione alla qualità della sofferenza psichica o all’assenza di essa manifestata dal paziente nell’ambito delle diverse fasi della cura, durante la quale l’analizzato deve essere condotto ad abbandonare l’illusione di poter sfuggire totalmente al dolore causato dalle esperienze della vita. Come puntualizzava Sigmund Freud, nel suo ironico pessimismo esistenziale, la psicoanalisi non può promettere la felicita; può però trasformare la sofferenza nevrotica in comune infelicità, legata all’esistenza e alla natura umana. (Pierini)

La carica empatia dell’analista può essere fondamentale per comprendere, capire e aiutare la persona sofferente ad uscire del tunnel del “dolore che non si vede”, spesso, ma non solo, riconducibile a cause antiche o a traumi recenti, comunque sia da risolvere, per acquisire strumenti utili per vivere una vita migliore.

Non si vede ma fa male lo stesso, spesso anche di piu’ del dolore fisico.

Nella relazione terapeutica che “funziona’, nella condivisione del dolore, il paziente può ritrovare se stesso, abbattere le cause, affrontare le difficolta’ che lo hanno portato al dolore psichico, riuscendo a vedere quella inizialmente piccola luce da cui attingere energia per poterne uscire definitivamente fuori.

Il lavoro terapeutico e’ complesso ma risolvibile, qualora ci sia una buona alleanza terapeutica tra analista e paziente, un alto grado di empatia dell’analista e partecipazione del paziente a superare il “dolore che non si vede”. Ricordo infine che per l’essere umano la sofferenza psichica, seppur minima, rimane un campanello d’allarme affinché non si incorra piu’ in situazioni similari o disfunzionali.

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Ci si vergogna di provar vergogna

La vergogna puo’ essere intesa come una difesa che protegge il narcisismo fragile, ma anche come espressione del narcisismo ferito. La vergogna puo’ essere intesa come espressione di una particolare strutturazione difensiva, ” la vergogna paralizzante”, la vergogna di “fare brutta figura” in cui l’individuo non si espone mai, mettendosi al riparo, e provandola raramente. Oppure la “vergogna intrapsichica” dove l’individuo si vergogna, ma controlla l’emozione e reagisce positivamente: si tratta di una vergogna anticipatrice che serve per controllare ed evitare le situazioni che possono minacciare il narcisismo fragile ed essere minacciose per l’intregrita’ del se’.

Ciascuno di noi ha provato il disagio e il turbamento di questa emozione, intensamente dolorosa, complessa e multifocale,ma alleata come modulatore delle nostre azioni.

Oggi e’ un sentimento che va sempre piu’ trasformandosi: apparentemente silente non potra’ mai scomparire, percio’ riaffora sotto mille forme.

La vergogna quindi  e’ l’altra parte della medaglia del narcisismo, ed ecco perche’ puo’ insorgere nelle relazioni affettive, o qualora si voglia  parlare in pubblico, o esporci in qualsivoglia modo: essa genera il timore di non essere all’altezza della situazione, proprio a causa di un narcisismo fragile e di una conseguente bassa autostima.

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NOVITÀ! recensioni di ex pazienti

  1. Per chi volesse sapere di più sulla mia persona e sul mio approccio clinico e modo di lavorare puo’ scorrere di seguito o cliccare su “chi sono” e poi su “recensioni”: potrà leggere alcune recensioni di miei cari ex pazienti che ringrazio per le loro parole che mi hanno colpito profondamente e mi danno forza ed energia ogni giorno  per continuare questo lavoro così difficile ma così meraviglioso! Grazie ancora

recensioni

Daniela P.

Attacchi di panico

Ho conosciuto la dottoressa quando gli attacchi di panico e una sterilità idiopatica mi rubavano la spensieratezza dei miei 30 anni.La sua empatia,la caparbietà,le competenze mi hanno regalato la maternità e la serenità.Le sarò per sempre riconoscente perché senza di lei la mia vita sarebbe stata buia…mi ha salvato la vita è ciò che penso quando la consiglio a chi mi chiede un aiuto psicologico..

laura

Un’ottima professionista e un’ottima persona. E’ stata fondamentale per superare il mio problema. Nel percorso insieme abbiamo lavorato su molte cose che mi hanno migliorato la vita. La consiglio con il cuore!

paola

Ho conosciuto la dottoressa Novelli in un periodo in cui non avevo energie per affrontare alcune situazioni che mi affliggevano.
Arrivavo agli incontri con la dottoressa dopo aver percorso 200km in treno con il mio ‘bagaglio di paure’ che la dottoressa,con professionalità,pazienza e determinazione,mi ha aiutato ad ‘alleggerire’ fino a svuotarlo dalle paure e a riempirlo di coraggio e fiducia in me stessa.
Ho avuto la fortuna di incontrare una eccellente professionista,una donna molto intelligente,empatica,colta e competente.

franco

La Dottoressa Novelli è una brava, è capace e preparata, è una bella persona che ama il suo lavoro. Le sono molto grato per la competenza e la dedizione che ha messo in campo ogni singola seduta, e mi ritengo fortunato ad averla incontrata. La consiglierei a chiunque.

mp.pagliari

Ho avuto il privilegio di incontrare la dottoressa Emanuela Novelli e di percorrere insieme una parte costitutiva della mia vita. Una rinascita.
Ero approdata al suo studio a 32 anni in una condizione penosa, di grande dissipazione energetica. Mi sentivo inutile, anzi dannosa, pensavo di sciupare, di inquinare, passare malattie, di mortificare. Sanguinavo nell’anima. Sentivo vicina la fine della mia vita.
Nel contempo avevo tanta rabbia che non usciva perché avevo paura di deflagrare. La dottoressa Novelli ha mi fermato l’emorragia dell’energia vitale, mi ha accolto e curato nella pace del suo studio, mi ha seguito nel ricostituirmi, mi ha accompagnato nel ridefinire i miei confini.
Insieme abbiamo fatto un lavoro profondo basato sulle libere associazioni e sull’analisi dei sogni che, da quando avevamo cominciato, arrivavano ogni notte sempre più copiosi, creativi, agitati, colorati, ricchi di spunti. Nel corso dell’analisi i sogni si facevano po’ alla volta meno violenti e riuscivo a salvare qualcosa che rappresentava la mia vita.
Con il percorso della psicoanalisi siamo arrivate al traguardo di farmi desiderare e percepire lo stato di benessere. Siamo arrivate alla definizione di me stessa, dei miei confini. Ero già molto felice…e da qui sono partita per affrontare la MIA vita!
Un’esperienza creativa e affascinante dove ho potuto sondare la ricchezza e la bellezza della mia esistenza.

marti.cipriani

Sono arrivata dalla Dott.ssa Novelli che ero pressoché una ragazzina, 17 anni e tante tante problematiche che assillavano la mia paura di maturare, di affrontare la vita, il tutto reso ancora più pesante da un’anoressia che era oramai conclamata ed evidente agli occhi di tutti. La Dott.ssa Novelli ha saputo entrare, con delicatezza e sicurezza, nel mio io più spaventato, lo ha preso e se ne è presa cura, ridandomi, piano piano, la speranza che la vita potesse regalarmi un’altra opportunità. E così ha fatto, ora che sono una donna, posso definirla la persona che ha salvato la mia vita, che mi ha ridato la salute, la fiducia e la voglia di amarmi nuovamente, per potere amare un’altra persona, speciale, che è diventato il papà delle mie due figlie.
Non smetterò mai di ringraziare la Dott.ssa per il lavoro fatto su di me, per la sua capacità unica di raccogliere una ragazza spaventata ed ai limiti della vita, e di renderla una donna.
Se qualcuno mi chiedesse a chi rivolgersi in caso di difficoltà, senza ogni dubbio mi verrebbe in mente il nome della Dott.ssa Novelli, che ha realmente salvato, con il suo lavoro, la mia vita.

pascan

Infertilità

È stato un percorso lungo e importante che mi ha consentito di risolvere, crescere e stare meglio. Sono passati anni ma non c’è giorno che non ripensi alla terapia e a quello che mi ha dato. La dott.ssa Novelli è una professionista eccellente.

linda

conosco la dott.ssa novelli da molti anni ed oltre ad essere una professionista seria ha la grande capacita di entrare in empatia con le persone che la contattano.
consigliata.

Gimmy

Disturbi alimentari

Ha dato lei molto più di quanto le abbia dato io,ho sempre contrastato quello che sarebbe servito X il mio bene,con tutte le mie forze ,eppure nonostante questo la dottoressa Novelli mi ha salvato dall’anoressia,dalla bulimia e da mille altre cose.Oggi penso che avrei potuto fare di più ,ascoltarla di più ,vederla di più. È’ stata in cardine ,un riferimento ,una guida ,una speranza e una famiglia,mi ha salvato da un incubo .Non potrei che consigliare lei,se avessi un amico o un figlio in difficoltà e che sta soffrendo,perché saprei di affidarlo in mani esperte e sicure .

Gianni

Come tutti, da sempre, ho tentato di risolvere qualsiasi problema anche psicologico facendo affidamento sulle mie forze, sulla struttura salvifica che mi ero costruito, una vita segnata da alcuni eventi traumatici, la perdita di mio giovane padre a 6 anni , un’innocenza violata, la scoperta dell’omosessualità, l’accettazione ma al tempo stesso la difficoltà nel comunicarla alle persone che mi amavano, il contesto sociale era quello della periferia romana negli anni 80, tutto era più difficile, l’omosessualità sembrava essere accettata solo agli artisti o a quei pochi coraggiosi che lottavano incuranti per la proprià libertà… io non ero un coraggioso. Il tempo passa, e ne passa tanto ad esser sincero e sulla struttura compaiono i primi segni di cedimento, la diga comincia a perder acqua, Sorgono quelli che si riveleranno essere dei veri e propri attacchi di panico violenti ed invalidanti. In quel momento mi sono reso conto di non poter più risolvere tutto da solo. L’analista di una cara amica mi fornisce il contatto della dottoressa Novelli, consuete tre sedute di conoscenza reciproca poi la Dottoressa mi propone di entrare in un gruppo composto da tre persone, non vi nascodo la mia titubanza, ma il bisogno era talmente grande che, stranamente per me, accettai la sfida. Relazionarmi, questo era il vero problema, con altre tre persone apparentemente lontane da me mille miglia sia per problematiche sia per ceto sociale, ho tolto la corazza e ho donato il mio cuore che non pensavo vivo, perdonatemi il romanticismo, nelle mani di tre persone e della Dottoressa Novelli
Ogni seduta uno step, un traguardo , tra entusiasmi ed difficoltà, la voglia di fuggire, la voglia di non presentarsi.
Ogni seduta un progresso, molte zavorre son cadute, prima tra tutte il coming out con persone alle quali voglio bene, molta rabbia è uscita fuori, energia negativa che ho liberato. Non parlo di un miracolo, spero di non trasmettere questo, l’analisi non mi ha stravolto la vita, sono sempre io, la stessa sensibilità, lo stesso essere umano fragile che chiese aiuto, ho una cosapevolezza diversa, imparare ad osservare la vita da una prospettiva diversa, c’è n’è sempre un’altra e lottare per ciò che posso cambiare e accettare quello che non posso. Spesso si parla dell’analisi come un percorso, per me lo è stato , lungo tutta la mia vita, ho ritrovato cose che mi ero perduto, persone che avevo lasciato e gettato altro che portavo inutilmente con me.
Di tutto ciò sarò sempre grato alla Dottoressa Novelli e al gruppo.

Francesco

Punto fermo del mio percorso, la Dottoressa Novelli é riuscita nel corso del tempo, in modo molto cauto , aiutandomi a riprendere in mano la mia vita e trasformarla completamente.
In un periodo scuro della mia vita dove non riuscivo a trovare nelle cose comuni il sorriso per andare avanti la dottoressa é riuscita ad offrirmi motivi sui quali far riflettere la mia felicitá e propagarla all’esterno.
É grazie alla sua disponibilità e bravura ,nei rapporti prima umani ed anche professionali, che mi é stato insegnato a condividire e godere della semplice felicitá.

Arianna A.

Ho avuto la fortuna di incontrare la Dott.ssa Emanuela Novelli in un periodo in cui non vedevo vie di uscita alla mia sofferenza. Certo, riuscivo a lavorare e quindi a mantenermi, ma ero arrivata al punto che preferivo lavorare… i fine-settimana erano diventati una sofferenza senza fine, una stanchezza cronica mi accompagnava per tutto il week-end e non vedevo l’ora che arrivasse il lunedì: cosa sicuramente non normale, non sana.
Parlo di fortuna perché incontrare la giusta psicoterapeuta in un momento della propria vita in cui, a causa del proprio vissuto, si sta attraversando un tunnel buio di cui non si riesce a vedere la fine, è di fondamentale importanza. Incontrare la persona giusta fa la differenza: nonostante le sedute fossero, a volte, molto dolorose e difficili, riuscivo comunque a non saltarne neanche una, perché per me erano l’unico modo per arrivare a vedere la luce alla fine del tunnel… e così è stato.
L’aggrapparmi alle sedute con la Dott.ssa Novelli, il vedere queste come l’unico mezzo a mia disposizione in quel sofferto periodo per arrivare ad avere una vita serena, era strettamente connesso alla figura della dottoressa. Mi ha saputo accompagnare in questo non facile percorso, diventando per me in quel periodo un punto di riferimento molto importante. Allo stesso tempo, nella fase finale della terapia, mi ha preparata, senza che io me ne rendessi conto immediatamente, a “camminare” da sola, recidendo in modo delicato e graduale il cordone ombelicale che inevitabilmente si crea tra una persona e il proprio psicoterapeuta.
Abbiamo affrontato insieme un percorso di terapia psicoanalitica che a tratti è stato molto difficile, ma, nonostante le difficoltà, le mie sedute con la dottoressa sono state per diverso tempo un bastone su cui appoggiarmi. Un bastone necessario in un periodo della mia vita in cui, grazie a lei e insieme a lei, mi fortificavo pian piano interiormente, in modo da riuscire ad affrontare con serenità le mille difficoltà, piccole o grandi, che tutti abbiamo nella vita e che sempre avremo. Il lavoro con lei mi ha permesso di acquisire quegli strumenti di cui tutti dovremmo essere in possesso per affrontare la vita, nel bene e nel male, in modo pieno e sereno.
Non finirò mai di ringraziarla per l’aiuto che mi ha dato e ancora adesso, nonostante siano già passati diversi anni, penso sempre a lei con affetto e gratitudine, perché rimane per me una persona e una professionista seria di riferimento a cui rivolgermi nel caso sentissi bisogno di un supporto psicologico.

Marina

Ho conosciuto la dott.ssa Novelli grazie ad una mia amica , sua ex paziente . Avevo già fatto un percorso analitico e sapevo che era molto importante , per un buon fine della terapia , instaurare da subito un rapporto ” empatico” e così è stato . Ho trovato in lei una vera professionista , mi ha aiutato a credere in me stessa , aumentare la mia autostima ed esprimere le mie emozioni .

Alessia

Ho conosciuto la dottoressa Novelli in occasione della perdita di mio padre. Ero giovane e un pilastro della mia vita era venuto meno. Grazie agli incontri con la dottoressa ho gradualmente riacquisito fiducia in me stessa, fino a lavorare e studiare insieme per laurearmi. Ha contribuito ad individuare i miei punti di forza e a fare leva su di essi. È stata in diversi momenti significativi della vita un punto di riferimento, come confronto, sostegno, conforto e spinta ad andare avanti e a migliorare. È una valida professionista, che insegna a valorizzare la propria dignità.

Bianca

L’ho incontrata ad un punto della mia vita in cui sembrava tutto morto. Era in effetti tutto morto. Ero molto sofferente. Avevo impacchettato e buttato via una parte di me, la più autentica e vitale. Un altro po’ di tempo e l’avrei persa per sempre. Un’analista sbagliata e non l’avrei più recuperata quella parte e con lei il gusto per la vita.

Invece ho incontrato la dott.ssa Novelli, grazie una serie di circostanze fortunate e …per un destino di rinascita che mi aspettava. Da allora abbiamo fatto un lungo percorso insieme. La strada del mio recupero non è stata facile, si potrebbe dire che è stata anche faticosa, eppure la fatica non l’ho mai sentita. Infatti non ho mai mancato una seduta perchè ogni volta che uscivo dal suo studio avevo qualcosa in più e un po’ di luce in più. Lei infatti è non solo una grande professionista, lei è una grande donna, luminosa e generosa.

Così, piano piano ho abbandonato il buio da cui venivo. Lei mi ha tenuto per mano anche attraverso momenti molto dolorosi, che non erano previsti quando iniziò la terapia: la malattia e la morte di mia madre quando ero ancora una giovane donna, il divorzio. Ma mi anche ha aiutato a godere pienamente delle cose belle che sono successe in questi anni: prima di tutto due gravidanze, due figli meravigliosi. E io non ero affatto una che sapeva godere delle cose belle! E ne ha fatto di fatica con me Emanuela Novelli….

Con lei ho imparato a non avere paura. Mi sono scoperta forte e allo stesso tempo mi sono accettata anche nelle mie parti fragili. Ho imparato a sentire il gusto di me stessa, ad essere consapevole e orgogliosa della mia femminilità, del mio essere donna. Ho imparato ad ascoltare il cuore e ad accordarlo alla testa, io che avevo sempre agito e costruito la mia vita come se il cuore non avesse alcun peso e non dovesse avere spazio nelle decisioni di vita. Ho imparato a mettere da parte schemi preconfezionati e a creare la mia vita a partire da me stessa. Ho imparato ad amare la mia anima, il mio modo di essere e il mio corpo.

Tutto questo nella mia analisi con lei, grazie alla mia analisi con lei, la dott.ssa Novelli. Mi ha guidata con intelligenza, perizia, pazienza, determinazione, senso pratico, attenzione, sensibilità e con fiducia. Ho sempre sentito la sua fiducia ed ho imparato ad averne anche io.

Senza di lei non ce l’avrei fatta. Avrei tirato i remi in barca, sarei probabilmente scivolata in una depressione inesorabile, avrei sicuramente moltiplicato i miei atteggiamenti autolesionisti, mi sarei chiusa in pensieri ossessivi. Invece oggi sono una donna soddisfatta, serena, piena e una professionista affermata. Una donna con i suoi problemi, certo, come tutti, ma con molti strumenti per affrontarli al meglio, strumenti che mi ha dato la dott.ssa Novelli.

Quando qualcuno ti svolta la vita, anzi ti riporta alla vita non si può ringraziare mai abbastanza…. Io sono infinitamente grata a questa donna eccezionale che per fortuna mia e dei suoi tanti pazienti ha deciso di fare la psicanalista e lo fa meravigliosamente bene.

fabio m.

Mi sono avvicinato alla Psicoterapia per la prima volta con la dottoressa Novelli. Avevo tanti timori (risultati, i tempi lunghi, costi) ho trovato una terapista empatica che in un periodo ragionevole mi ha aiutato a ritrovare la mia strada. Insieme abbiamo fatto un grande lavoro. Fabio M.

ELI

2018-01-18

Ho avuto la grande fortuna di incontrare la Dottoressa Novelli nel periodo forse più difficile della mia vita, avevo 24 anni e mio padre era appena venuto a mancare. Avevo bisogno di un sostegno psicologico che mi desse la forza di continuare a credere nella bellezza e nella vita. Insieme abbiamo intrapreso un percorso fatto di lunghe camminate, corse, pause, silenzi, curve difficili, discese e risalite. Con i giusti tempi, tappa dopo tappa, siamo arrivate alla fine della strada arricchite entrambe di un’esperienza unica e preziosa. Il percorso di psicoanalisi fatto con la Dottoressa mi ha aiutato a sciogliere tanti nodi che mi portavo dietro fin dall’infanzia e mi ha dato nuovi strumenti per affrontare il futuro in modo più consapevole e per superare i problemi con una sana autoanalisi quotidiana. Con gioia, fatica e determinazione in questi anni di terapia sono riuscita a portare a termine molti obbiettivi e ora dando uno sguardo al percorso fatto, nonostante la mia inguaribile tendenza all’autocritica, debbo ammettere di esserne assai soddisfatta. Ringrazio la Dottoressa la professionalità e per la passione con le quale affronta il suo lavoro ogni giorno.

 

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Madre e figlio dalla vita intrauterina in poi

Nella precoce (fino dalla vita fetale),profonda,emotivamente ricca,relazione con la madre si fondano e si costruiscono tutti quei nodi essenziali che possiamo chiamare “ le chiavi determinanti per la salute fisica e psichica“ futura. Quello che le moderne neuroscienze chiamano il sistema psiconeuro-endocrinoimmunologico.
L’impronta materna originaria,neuro/affettiva/relazionale,da un lato plasma nel piccolo la prima immagine di sé, forgia cioè la matrice da cui si svilupperà la personalità,dall’altro lato struttura il sistema che gli consentirà un equilibrio fisiologico e mentale e una capacità di autoregolazione,che a sua volta lo aiuterà nel progressivo distacco, non traumatico,dall’oggetto primario che gli ha fatto da guida, cioè dalla madre stessa.

Ciò che è accaduto al piccolo,nel bene e nel male,“nei primi 45 mesi determinanti per la vita” (9 mesi nel ventre materno e 36 mesi alla luce) resterà fissato nella memoria implicita e condizionerà per sempre il suo futuro.
Per sempre,l’equilibrio fisiologico e mentale del figlio sarà il riflesso dell’equilibrio fisiologico e mentale della madre.

Il rapporto tra madre e piccolo, fino dalla fase prenatale, non può fare a meno di strutturarsi su una serie di interazioni bio-psicologiche,che hanno la loro ragione di esistere nel concetto di “relazione”.

Si consideri ,per esempio, il fatto che l’embrione rilascia gruppi di cellule staminali, che oltrepassando la placenta, penetrano nella struttura materna, per aiutare a sistemare quegli organi che hanno bisogno di riparazione.
E’ un’azione inconscia,protettiva del piccolo prenatale verso il corpo della madre, cioè verso l’ambiente in cui sta crescendo. Ma è anche un segnale comunicativo verso la struttura che lo ospita. E’come se il nascituro dicesse “ ti do qualcosa di me perché tu stia meglio:dammi qualcosa di te”. E’ un processo di scambio basato sugli stimoli materni e sulla risposta fetale, dove  “ogni stimolo è destinato a diventare una componente della personalità che si sta formando,e dove la natura viene assorbita e ripresa dalla cultura”. (L.Ancona)
Lo psicologico materno diventa biologico e poi psicologico nel piccolo.
Questa dinamica, evolvendosi, trova la sua naturale maturazione nel processo di ATTACCAMENTO.
Nel cervello della madre sotto l’effetto della partecipazione emotivo/affettiva della relazione con il feto e poi con il neonato, si producono, insieme a dei neurotrasmettitori, anche dei neuromodulatori, che sono in grado di aumentare l’efficacia delle connessioni sinaptiche che si stanno formando, e che hanno la capacità di determinare dei cambiamenti duraturi .
L’avvenimento dell’attesa di un figlio, l’agire giornalmente in un lavoro di stimolazione che ha come fine ultimo il suo benessere nel presente e nel futuro, l’emozione del parto e poi il successivo periodo di intenso accudimento, consentono al cervello materno di produrre l’ossitocina, un neuromodulatore che agisce sulle connessioni neurali esistenti, trasformandole e avviando una fase di importanti mutamenti strutturali.
L’ossitocina,chiamato anche “l’ormone della fiducia e dei legami sociali”, favorisce il sentimento di tenerezza e facilita il complesso percorso dell’attaccamento, ma rinforza anche nel piccolo la tendenza a legarsi con gli altri, cioè a socializzare .
L’ossitocina nel corso del travaglio, stimolerà le contrazioni, e dopo il parto favorirà la produzione del latte.
Alcuni studi condotti con la risonanza magnetica nucleare funzionale, consentono di osservare chiaramente che quando le madri prendono in braccio il piccolo o anche soltanto indugiano a osservare la sua fotografia, si attivano le regioni cerebrali ricche di ossitocina.
Tutte queste considerazioni per ricordare alle madri, che dubitano di non essere all’altezza di sostenere il ruolo che le attende e che temono di non riuscire ad affrontare le responsabilità che la presenza di un figlio comporta, quanto sia saggia e previdente la natura. Questa ha,infatti, predisposto che nel cervello materno avvengano delle modificazioni endocrine in grado di trasformarsi in modificazioni affettive, tali da mantenere costantemente vivo il legame con il piccolo. Questi,contemporaneamente, assorbendo ossitocina, sviluppa e fissa per sempre il desiderio della relazione affettiva. Di qui inizia la lunga strada che porta alla maturazione del sentimento dell’EMPATIA.
La madre deve prendere coscienza che ogni stimolo amorevole che proviene dal suo ecosistema psicologico, ma anche neuro-endocrino, fornito dall’ambiente uterino di base, nutre la personalità relazionale del figlio, e che questi, ricco fino dalla fase fetale di abilità percettive, interattive, cognitive, si attacca a lei, ed è in grado di manifestare in modo attivo la sua soddisfazione.
Il senso di sicurezza del piccolo dopo la nascita deriverà dalla profondità del suo attaccamento alla madre.
Ed è sulla base di un felice e intenso attaccamento che incomincerà a svolgersi il processo di APPRENDIMENTO.

Fino a un certo momento della vita fetale non si può parlare di “percezione”, ma si deve parlare di “recezione” dei messaggi materni. Infatti la percezione è il risultato di una serie di operazioni mentali, che organizzano le diverse afferenze che provengono in contemporanea da molteplici sensorialità.
E’ attraverso questo cammino lento dall’afferenza di tipo biologico verso la percezione che è in grado di lasciare tracce nella memoria (la memoria implicita che si basa sulle strutture tattili/emozionali ) che si dipana, per gradi, proprio il processo di apprendimento.
Le iniziali esperienze relazionali fetali sono indispensabili per la successiva costruzione delle prime funzioni mentali propriamente dette, che a loro volta influenzeranno fortemente le fasi dell’ulteriore evoluzione.
Alla base dello sviluppo cerebrale e mentale umano c’è la predisposizione ad apprendere dall’esperienza.

La madre, coinvolgendo il feto e poi il neonato in una serie di esperienze/stimoli, gli insegna come costruire le modalità per l’apprendimento. Attraverso le esperienze gli insegna a “pensare”.
Si delinea così il concetto “dello strutturarsi di una mente primitiva anche in epoca fetale “.
Gli input recepibili dal feto dapprima saranno di tipo biochimico (attraverso la placenta dal metabolismo materno al feto ), poi tattile e uditivo, poi vestibolare, quindi di tipo olfattivo-gustativo e poi ancora proprioaccettivo muscolare.

Questa “teoria del protomentale” è necessaria per spiegare anche il concetto di”transgenerazionalità” e cioè della trasmissione da madre (ma anche da padre) in figlio di certe caratteristiche psicologiche.
E’ la conferma che la caratteristica dell’homo sapiens è possedere fino dall’inizio dell’esistenza intrauterina, una PREDISPOSIZIONE AL “MENTALE”, e che questo mentale inizia il suo sviluppo con la relazione tra l’embrione, e poi il feto, e la gestante.

Si può affermare che, fino dalla fase prenatale, il piccolo “sceglie” la madre come punto di riferimento per le sue prime esperienze interattive con la realtà esterna. Una scelta così intensa ed esclusiva da consentire poi al neonato di riconoscerne la voce, i richiami, i profumi,in mezzo a tanti segnali.

Il bambino, nelle sue prime relazioni con la madre e con il padre, dovrà costruirsi una classe di oggetti (parziali prima e più completi e integrati poi) cui dovrà dare una collocazione spazio-temporale all’interno di sé, in quello spazio metaforico che chiamiamo mondo interno. Un ruolo centrale avrà in questo processo l’esperienza che il bambino ha fatto nella sua crescita endouterina. Queste esperienze sono tutte affidate alla sensoriaIità (in primo luogo uditiva ma anche somoestesica, vestibolare, gustativa), che permetterà al feto di percepire i ritmi materni (cardiaci, respiratori, intestinali), i suoi propri ritmi e gli stimoli provenienti dall’ambiente esterno. Ne deriverà una interazione sensomotoria matemo-fetale la cui caratteristica essenziale è la costanza e la ritmicità. Questi stimoli funzioneranno da “oggetti modello” per la formazione di un primo abbozzo di rappresentazioni e costituiranno per il feto un contenitore ideale per una crescita che è fisica e mentale ad un tempo. In particolare, I’esperienza ritmica uditiva sarà essenziale per lo sviluppo delle funzioni psichiche che parteciperanno alla formazione della categoria mentale deputata alla definizione del bello. Vale forse la pena di accennare qui al fatto che la ritmicità è uno degli elementi essenziali del concetto del bello in ogni forma d’arte e non solo in musica

In questa linea di pensiero è suggestiva l’ipotesi che stati emotivi particolari, come ad esempio lo stato di trance che il suono del tamburo induce in alcuni popoli primitivi e, aggiungerei, lo stato di trance ipnotico che può essere indotto da alcuni ritmi in noi occidentali, sia legato ad esperienze musicali arcaiche radicate nelle prime esperienze che il bambino fa con la madre prima e dopo la nascita e in cui i ritmi biologici materni potrebbero avere un ruolo fondante.

In conclusione ritengo che la vita intrauterina sia determinante nella formazione della personalità dell’individuo in tutte le sue sfaccettature e nell’evoluzione di quella che poi sarà la personalità adulta

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