Autore: Maria Emanuela Novelli

L’ammirazione o l’amore verso chi ci fa del male: cosa succede e come uscirne

In alcune relazioni disfunzionali miste di  terrore ed isolamento, l’atteggiamento della vittima verso il suo aggressore può persino diventare patologico quando si presenta un legame di ammirazione,ringraziamento ed identificazione.

Un classico esempio dell’identificazione con l’aggressore è la cosiddetta “Sindrome di Stoccolma”. In questo caso, le vittime instaurano un legame affettivo con i loro carcerieri durante un sequestro.

Questa sindrome porta anche il nome di “legame traumatico” e descrive i sentimenti e i comportamenti positivi da parte delle vittime verso i loro aggressori, così come gli atteggiamenti di rifiuto verso tutto ciò che va contro la mentalità e le intenzioni dei malfattori, nonostante i danni subiti.

Quando si rimane alla mercé di un aggressore, appaiono elevate dosi di terrore ed angoscia, che portano come conseguenza una regressione infantile. Tale involuzione viene vissuta come una sorta di sentimento di gratitudine nei confronti dell’aggressore, poiché lo si inizia a vedere come qualcuno che soddisfa le nostre necessità basilari; è per questo motivo che la vittima riprende, in qualche modo, ad essere un bambino.

L’assalitore dà da ‘mangiare’, e’ una sorta di carburante velenoso e la vittima non può  che sentire gratitudine verso l’assalitore che la lascia in vita.

Si dimentica che egli è proprio l’origine della sua sofferenza.

Il metodo usuale di un aggressore sta nell’intimidire la vittima quando è indifesa. In altre parole, l’assalitore abusa della sua vittima quando questa è vulnerabile.

A questo punto, la vittima è terrorizzata e difficilmente proverà a difendersi; questo succede perché la vittima crede che, se si sottomette, avrà maggiori possibilità di sopravvivere, e non perdera’ l’amato se si tratta di una relazione amorosa.

Il legame emotivo tra la vittima dell’intimidazione e dell’abuso e il maltrattatore è, in realtà, una strategia di sopravvivenza. Una volta compresa questa relazione, è più semplice capire perché la vittima appoggia, difende e persino ama il suo aggressore.

Quel che è certo è che le situazioni di questo tipo non si presentano solo in occasione di un sequestro, sono anzi molto più frequenti di quello che pensiamo e sono tipiche dei casi di violenza sulle donne

Ogni trauma originato da un atto violento lascia una traccia profonda nel cuore umano. Per questo motivo, ci sono volte in cui l’identificazione con l’aggressore si attiva senza che esista un legame stretto con lui.

Il potere posseduto dall’aggressore incute così tanta paura che la persona finisce per imitarlo, allo scopo di scongiurare il timore di un possibile confronto: questo comportamento legittima l’uso della violenza di cui si è stati vittima.

Da vittime ad aggressori

Una persona vittima di un abuso anche psicologico  corre il rischio di diventare a sua volta un aggressore, poiché si sforza di comprendere l’accaduto, senza riuscirci. È come se la personalità si diluisse nella confusione e si creasse un vuoto che viene poco a poco riempito con le caratteristiche dell’assalitore; è così che nasce l’identificazione con il proprio carceriere e/o carnefice.

A questo punto, è bene chiarire che tutto questo processo si sviluppa in modo inconsapevole. La vittima è convinta che, se riuscirà ad appropriarsi delle caratteristiche dell’aggressore, potrà neutralizzarlo. Si ossessiona con questo obiettivo, ci prova costantemente ed è con questa dinamica che finisce per assomigliare al maltrattatore.

Quest’ultimo ovviamente non sara’ contento di tutto cio’ e continuerà’ nella sua opera sadica con l’intento di distruggere del tutto la vittima purtroppo spesso riuscendosi (vd. Anche i casi di femminicidio). Uscire fuori da questi tipi di relazione disfunzionali e’ molto complesso ma si puo’, soprattutto se si viene seguiti da uno psicoterapeuta che aiuti la vittima ad uscire dalla relazione, cercando di farla guardare in se stessa e ai suoi bisogni profondi  e antichi

Mascolinizzazione della donna e femminilizzazione dell’uomo

A proposito della mascolinizzazione della donna:

Questo processo ha portato la donna oltre che potenziale genitrice anche ad assumere ruoli sociali di vertice. Posizioni che in ultima analisi si sono rivelate sterili, prive di poteri di controllo reali dell’io, perché appiattite su archetipi maschili. Purtroppo pero’ la sovrapposizione femminile ha indotto la parallela devitalizzazione del maschio e la nascita univoca di un individuo neutro, diviso tra lavoro e diletto irresponsabile.

Azzerata ogni differenza con il maschio, la donna ha pensato di poter trovare la strada della piena realizzazione sacrificando il suo tempo attivo sull’altare del lavoro.

Non è quindi un caso se le società del cosiddetto mondo avanzato sono quelle più socialmente in crisi e destinate alla estinzione. Società nelle quali la donna spende le sue energie migliori per soffocare la madre e ambire a ruoli maschili. Scoprirà poi alle soglie della maturità, che l’aver azzerato le differenze le ha solamente regalato una effimera felicità dalla quale la libertà non avrà tratto alcun giovamento. Il corso della storia ci ha testimoniato che ad ogni rivoluzione segue una reazione di recupero dell’ordine delle cose.

A fronte della mascolinizzazione della donna ci troviamo dinanzi al fenomeno della femminilizzazione del maschio

Sarebbe più appropriato parlare di ridotta “androgenizzazione” del maschio moderno o devirilizzazione.

Quello che in realtà si sta verificando è una modificazione (in senso femminile) dell’aspetto fisico del maschio (fenotipo),anche legato talvolta a una relativa riduzione dell’ormone maschile per eccellenza: il testosterone.

Ma dove e’ il maschio e dove e’ la femmina oggi?

Aldila’ dei discorsi prettamente medici, dal punto di vista psicologico invece il maschio sta perdendo la propria virilità a causa di una società in cui le donne stanno prendendo il sopravvento grazie alle proprie potenzialità e capacita’ da tutti i punti di vista e nei campi piu’ svariati. E’ innegabile che cio’ generi un pericolo per la nostra societa’ laddove l’inversioni dei ruoli e’ confondente sia sul piano dell’identità sia sul piano genitoriale. Nella coppia con figli, spesso, si trova il maschio-mammo  che e’ una delle piu’ evidenti femminilizzazioni della figura maschile, senza pensare poi alla perdita di responsabilità prettamente maschili che obtorto collo finiscono col gravare sul ruolo della donna. La donna di conseguenza si trova spesso a svolgere due ruoli contemporaneamente di donna e di uomo ognuna con le sue rispettivamente responsabilità. Tutto cio’ genera una super lavoro nella donna, uno stress che spesso la porta a perdere l’identità femminile nel senso piu’ puro, rischiando la mascolinizzazione, questo anche perche’ in alcuni tipi di lavoro vengono fatte richieste alle donne di tipo maschile. Di conseguenza la donna potrà sempre meno occuparsi dei suoi cuccioli qualora li abbia, oppure avere difficolta’ a metterli al mondo qualora non li abbia. E’ molto frequente trovare la donna che non riesce a rimanere incinta a fronte di esami diagnostici del tutto negativi sia in lei che nel partner……ma queste sono ipotesi ancora aperte.

Inoltre, il ribaltamento dei ruoli non incide positivamente sui figli all’interno di un nucleo familiare, in quanto i bambini nonché gli adolescenti hanno bisogno di trovare nella madre una donna accogliente e accudente seppur lavoratrice, e nel padre una figura di riferimento forte, vigorosa e determinata. L’assenza di cio’ puo’ provocare destabilizzazione nei figli e confusione,soprattutto per quanto riguarda le identificazioni, della figlia con la madre e del figlio con il padre.

In conclusione, si puo’ dire che, allo stato attuale, la situazione della donna e dell’uomo e’ molto completa e confusa, e ripensando all’800 non possiamo altro che invidiare la forte definizione dei ruoli, secolo in cui, vero e’, che la donna non aveva diritto al voto, conquistato in seguito, ma in cui aveva un ruolo forte di femmina, di donna, di madre e di moglie e l’uomo era uomo, un uomo su cui poter contare e ancora di riferimento, oggi e’ difficilmente cosi’. Ovviamente non va fatta una generalizzazione in entrambi i periodi storici ma una via di mezzo sarebbe la soluzione piu opportuna.

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L’angoscia d’abbandono: cause, conseguenze e soluzioni

 La base neurofisiologica dell’ansia è qualitativamente differente dall’angoscia ma vengono spesso usate come sinonimi

Il punto centrale, infatti, è l’abbandono, o meglio, la separazione vissuta dalla persona come abbandono: ecco che scattano una serie di meccanismi e di comportamenti che tentano di arginare, contenere e allontanare la possibilità che l’altro se ne vada e che ci lasci soli con la nostra vita.

La paura di essere abbandonati appartiene a ciascuno di noi: da bambini temiamo di essere abbandonati dai nostri genitori, da adulti abbiamo il timore di perdere le persone che amiamo e di rimanere per sempre senza legami affettivi. Il risultato è che molto spesso si creano delle relazioni emotivamente dipendenti e poco sane basate sulla paura di perdere l’altro anziché sulla gioia di dare incondizionatamente.

Ecco allora che si sviluppa attaccamento e desiderio di possesso: esattamente il contrario della libertà, principio fondamentale dell’amore e dell’amicizia.

La trappola dell’abbandono scatta principalmente nelle relazioni più intime e può essere scatenata o da perdite o separazioni reali come  un trasloco, il divorzio, l’abbandono o la morte o da qualsiasi altra causa che preveda un’interruzione del contatto con l’altro.

Altre volte la paura dell’abbandono si manifesta nell’impossibilità di troncare relazioni dannose siano esse di amicizia, di amore o di lavoro. Pur riconoscendo che quelle relazioni non siano fatte per noi e non ci facciano stare bene, non riusciamo a troncarle per paura di rimanere soli. Così facendo non solo prolunghiamo questa sofferenza, ma escludiamo ogni possibilità di aprirci a nuove relazioni più salutari e adatte a noi (e all’altro). In altri casi, siamo così scottati e in preda alla paura da chiuderci totalmente e non volere più nessuno accanto per paura di essere abbandonati un’altra volta. La paura di soffrire è così forte che preferiamo anticipare ogni mossa e troncare quella relazione prima che le cose accadano realmente nell’illusione di poter controllare le nostre emozioni, provocando in realtà tristezza e frustrazione. La felicità è un diritto di nascita e avere delle relazioni soddisfacenti nella nostra vita è possibile.L’ansia dell’abbandono è così definita perché, appunto, si esprime con stati di forte ansia. Ma è possibile che la percezione della perdita si manifesti anche in altro modo, per esempio con la tristezza, il senso di vuoto, la rabbia o l’ira.

«Chi soffre della paura dell’abbandono molto spesso finisce per mettere in atto comportamenti che la aggravano, per esempio evitare di legarsi agli altri»

Quali sono le origini dell’angoscia d’abbandono?

Esistono degli eventi nella vita che portano, per vari motivi, a costituire un attaccamento insicuro che, “a quanto pare”, si trova alla base del disturbo di ansia da separazione diagnosticato come disturbo dell’età pediatrica dal DSM IV TR, ma anche alla base di relazioni patologiche segnate dall’ansia da abbandono che si manifestano nell’età adulta.

L’angoscia di abbandono richiama un senso di vuoto, di smarrimento di fronte alla vita stessa, che improvvisamente appare defraudata di significato. Essa nasce dalla percezione di “non essere nella testa di nessuno”, nel cuore di nessuno: in assenza dell’altro che ci faccia da specchio, la paura più profonda è quella di non esistere più. Per comprendere questa sensazione basti pensare al bambino che si nasconde per gioco, ma che non venga trovato da nessuno.

L’angoscia di abbandono affonda le radici nella prima infanzia, e nelle modalità con le quali si sono affrontate le piccole e grandi separazione nella vita. Queste separazioni in fondo sono rivoluzioni necessarie nello sviluppo dell’individuo: da ogni certezza lasciata alle spalle nasce una nuova sfida che porterà ad un nuovo traguardo. Per riuscire a vederla in questo modo, è necessario affrontare un percorso personale psicoterapeutico che vada a colmare quel vuoto originario che ci si porta dietro ovunque si vada, e dal quale si cerca salvezza in ogni nuova relazione che si intraprende. Solo appianando quel vuoto personale sarà finalmente possibile star bene (anche) in due.

 

L’ansia da abbandono begli adulti

L’ansia da abbandono, o angoscia abbandonica, la possiamo trovare nelle forme di relazioni dipendenti che ci circondano, la troviamo nel disturbo di personalità dipendente , la vediamo nell’annullamento di sé che si instaura nei rapporti d’amore e nella fuga che si scatena nel partner.

L’angoscia, più dell’ansia, è profonda e penetrante

Le relazioni patologiche e l’ansia d’abbandono

Esistono delle relazioni fortissime scambiate per amore profondo ma che in realtà sono soggette alle leggi dell’ansia da abbandono di uno de partner. C’è uno dei due che si pone come “l’incapace” e che, automaticamente, investe l’altro di un grande potere: ogni cosa è fatta per evitare che l’altro vada via, per evitare quell’allontanamento vissuto come perdita e abbandono perché riattiva echi lontani di un bambino che ha vissuto una relazione affettiva genitoriale poco stabile, povera di nutrimento amorevole e affettivo.

Chi soffre di ansia di abbandono parla d’amore ma non lo sa provare, chiede amore, ma non sa come darlo, si dice innamorato, ma non sa cosa significhi, si perde nell’altro mantenendo il controllo della relazione. l

Entrambi i partner sono persone incapaci di essere autonomi: l’uno vive per l’altro, ognuno cerca di colmare il proprio vuoto interiore attraverso il compagno, tentando di avere, inutilmente, nutrimento da una relazione che è sterile di per sé perché incapace di aprirsi e vivere in maniera onesta. Ma che succede quando il partner se ne va a chi soffre di ansia da abbandono? Spesso si ha la sensazione di morire, di disgregarsi, di andare letteralmente in pezzi o invece la ricerca spasmodica di un nuovo partner che possa aiutarlo a placare e a sedare la sua ansia attraverso la sua finta presenza.

Come superare l’angoscia d’abbandono

L’obiettivo e’ riuscire a percepirsi come persone in grado di nutrirsi da sole, imparare a percepire il proprio vuoto interiore.

 Recuperare se stessi, riconoscere i propri bisogni, imparare a guardare se stessi e l’altro per quello che si è il primo passo. Il secondo è farsi aiutare. Un percorso con uno psicoterapeuta è forse la strada migliore per poter vedere e attraversare tutto il dolore passato che alimenta e vive nel disturbo presente.

Di seguito elenco vari modi per superare l’angoscia d’abbandono

1. Come per molti altri comportamenti disfunzionali, la parola chiave è consapevolezza. (Sconfiggere i propri fantasmi interni). Ammettere a noi stessi di avere paura di qualcosa e riconoscere quella paura– in questo caso essere abbandonati e rimanere soli – è il primo passo verso la trasformazione.

2. Lavorare sulla propria identità
Quando siamo innamorati, sopravvalutiamo l’altro, che ci sembra perfetto così com’è. In realtà, stiamo trasferendo all’altro tutte le qualità che vorremmo avere noi. Quando poi la relazione finisce, ci sentiamo persi, come se non valessimo niente senza l’altro a fianco. Piuttosto che cercare nell’altro le qualità che non abbiamo e che vorremo avere, cerchiamo di costruircele dentro di noi.

3. Guardare il lato positivo
Il distacco porta con sé anche degli aspetti positivi. Tutto accade per una ragione; se una relazione – di qualsiasi tipo – arriva al capolinea è perché non è più adatta a noi. Quando lasciamo passare un po’ di tempo e ci guardiamo indietro, ci accorgiamo di come il distacco sia stato un’importante fonte di riflessione, una ricchezza che ci ha fatto crescere, ci ha fatto vedere il mondo da un altro punto di vista e ci ha offerto più opportunità.

4. Smettere di generalizzare
Generalizzare ci porta a distorcere la realtà e a cancellare i dettagli che invece fanno la differenza. Così finiamo per non vedere le vie di mezzo, e pensiamo in termini di tutto o niente, bianco o nero.
Il fatto che un uomo o una donna ci abbia lasciato non significa che tutti gli uomini e tutte le donne siano uguali e si comportino allo stesso modo. Generalizzare ci allontana dalla fiducia, che invece è il pilastro su cui si dovrebbero fondare le nostre relazioni.

5. Godere delle relazioni che si hanno al momento
Il qui e ora è l’unico momento che esiste, l’unica certezza che hai. Pre-occuparsi delle cose prima che accadano è assolutamente inutile. Nulla è per sempre – siano essi momenti belli o brutti. Tutto è impermanente. Riuscire a godere delle relazioni che si hanno ora, esattamente nel luogo in cui ci si  trova con le persone che si hanno di fianco.

I partner delle persone con l’angoscia d’abbandono

Il modello di relazione sviluppatosi in infanzia, positivo o negativo che sia, tende a preservarsi attraverso particolari meccanismi: innanzitutto, influenzando i “gusti” personali. Generalmente, coloro che sono convinti dell’instabilità delle relazioni finiscono per stabilire legami proprio con persone instabili, emotivamente inaffidabili o incapaci di impegnarsi in un rapporto durevole. Al contrario, non sembrano altrettanto attratte da chi mostra stabilità e capacità d’impegno. Pur sapendo che questo secondo tipo di partner consentirebbe loro di rischiare meno l’abbandono, sembrano spinte verso individui della prima tipologia forse riconoscendoli, inconsapevolmente, più coincidenti alla loro idea di figura di riferimento.

La scelta di persone poco accessibili o inaffidabili finisce, in un circolo vizioso, per tenere viva la percezione d’instabilità delle relazioni e, quindi, la paura dell’abbandono.

Le conseguenze  della paura dell’abbandono e le strategie disfunzionali

Altri fattori, oltre alla scelta di partner poco affidabili, mantengono viva la paura dell’abbandono. In particolare tre strategie disfunzionali che, spesso, vengono adottate nelle relazioni. Si tratta dei comportamenti di evitamento, d’ipercompensazione e di resa.

Un esempio di comportamento d’evitamento è decidere di non legarsi sentimentalmente. Molte persone con ansia d’abbandono, in effetti, tendono a condurre una vita in solitudine.

Un esempio di comportamento d’ipercompensazione è controllare gli spostamenti del partner per accertarsi che non stia facendo niente di dannoso o scorretto. Chi utilizza l’ipercompensazione può mostrarsi estremamente possessivo, per esempio aggredendo chiunque possa minacciare la relazione. Lo scopo è impedire l’insorgere della paura dell’abbandono o l’abbandono vero e proprio

Un esempio di comportamento di resa è la “scenata” di gelosia.

A questo punto, in conclusione di questo articolo, vorrei sottolineare la necessita’ di un supporto psicologico che aiuti l’individuo “dipendente e con angoscia di abbandono” a trovare in se stesso risorse che vadano a nutrire quel vuoto arcaico che tanto lo fa soffrire: e che lo porta non solo ad immergersi in relazioni disfunzionali ma anche ad avere paura di guardare il proprio vuoto.

Il terapeuta dovrebbe essere capace, in alleanza con paziente, a riempire quel vuoto facendo si che il paziente stesso, scoprendo le proprie risorse o trovandone delle nuove possa vivere bene godendo di se stesso e di ciò’ che e’ capace di essere e di fare. Ognuno di noi ha talenti nascosti e sotterranei a cui poter attingere per stare meglio indipendentemente dagli altri, da solo qualora non vi siano intorno persone positive alla sua vita. Stare soli non e’ una condizione negativa, posto che si stia veramente soli in questa società’ che ci da tante possibilità nel sociale. Infine la consapevolezza e la comprensione dell’origine di questi timori, ansie e angosce consente al paziente di affrontare la solitudine in modo più’ sereno – modalità che certamente porterebbe alla scomparsa di tali sintomi e ad un buon rapporto con se stessi.

L’entusiasmo: l’anima dei desideri e l’altra parte della medaglia

Ci siamo entusiasmati tutti per qualcosa o qualcuno nella vita. Proviamo a  ricordare un momento in cui avete sperimentato questo sentimento molto intenso. L’entusiasmo era legato ad altre variabili mentali, tra le quali una ben precisa: la motivazione

Quando qualcosa o qualcuno ci piace davvero e non riusciamo a “godercelo”………In altre parole, l’entusiasmo agirebbe come un elemento chiave che ci predispone all’azione.Come un motore. Ma come mai l’entusiasmo è così potente?

Non rifiutare i tuoi sogni. Che mondo sarebbe senza entusiasmo?

Ramón de Campeador

Ma cosa e’ l’entusiasmo?

Se pensiamo all’entusiasmo, ci vengono in mente cose positive per definirlo. In genere, quindi, lo associamo a valori e ad esperienze positive. Ci aiuta a cercare un cambiamento e a migliorare come persone. Ma non finisce qui, l’entusiasmo ci fa crescere e aumenta la nostra qualità di vita, senza contare il fatto che è di grande motivazione per fare quello che ci fa stare bene, per raggiungere i nostri obiettivi, i nostri sogni.

Questo sentimento ci motiva a ricorrere ai mezzi necessari per raggiungere l’obiettivo sottostante allo stesso. È una speranza iniziale, alimentata dall’idea o dal presentimento di aver trovato qualcosa di positivo, vale a dire che è l’entusiasmo a stimolarci e lo fa con le azioni che mettiamo in pratica per raggiungere il nostro obiettivo, così come attraverso la consapevolezza.

Il talento è necessario, ma senza entusiasmo non si può arrivare davvero lontano.

Fernando Trujillo Sanz

Per esempio: l’entusiasmo si manifesta quando vediamo l’offerta di lavoro che desideriamo, ovvero lo stimolo o quando capiamo di essere corrisposti da una persona che ci piace.Tuttavia, è presente anche mentre stiliamo il curriculum e ci prepariamo per il colloquio per ottenere quel posto oppure quando stiamo per incontrare la persona desiderata. Infine, quando veniamo selezionati per quel lavoro (la conseguenza),o siamo corrisposti affettivamente, in genere tale sensazione rimane.

In definitiva, l’entusiasmo in parte nasce dalla fantasia, dai sogni e dall’immaginare di avere almeno una possibilità di ottenere quello che vogliamo. Si materializza quando iniziamo a percorrere la strada per raggiungere l’obiettivo o firmiamo un contratto o stabiliamo la relazione tanto desiderata e ci impegniamo a non arrenderci al primo ostacolo, reale o immaginario che sia, previsto o imprevisto.

Le componenti dell’entusiasmo

Come abbiamo visto, l’entusiasmo è stimolo, risposta e conseguenza, ma si compone di molti altri elementi. Alcuni sono legati alle emozioni, soprattutto di carattere positivo. In questo senso, è associato all’allegria e alla felicità, ma anche alla voglia di vivere e talvolta di sopravvivere.

Infine, essendo l’entusiasmo una risposta, comprende elementi legati all’azione e al comportamento e a tutti quei comportamenti che portiamo a termine quando ci entusiasmiamo e siamo motivati a raggiungere un certo obiettivo.

L’entusiasmo e la sua parte oscura

Da quanto detto finora emerge un’idea fondamentale: l’importanza dell’entusiasmo come stimolo di crescita. Quando siamo entusiasti, siamo molto più bravi ad affrontare i diversi ostacoli che si presentano sul nostro cammino, senza paralizzarci e senza perdere l’energia. Diventiamo più potenti.

Riusciamo ad andare avanti nonostante l’incertezza circa il conseguimento dell’obiettivo prefissato. Come in altri ambiti della nostra vita, il controllo spetta a noi. Se ci prefissiamo degli obiettivi irraggiungibili, a lungo andare perdiamo tempo e ci sentiamo peggio.

L’entusiasmo sembra svanire come per magia se ci troviamo in una situazione depressiva (dovuta sia a fattori esterni che interni): ci sembra che non ci sia nulla per cui vivere, non vediamo più la realtà con gli occhi della vita pensi solo oscurità e buio. L’entusiasmo e’ il primo a scemare e la sua mancanza non solo paralizza l’individuo ma lo rende evidentemente malinconico e privo di energia.

L’entusiasmo e’ necessario che sia anche adeguato agli obiettivi che vogliamo raggiungere onde evitare livelli di frustrazione troppo elevati.

Approfondiamo meglio con un esempio: se ci piace la musica, ma non le abbiamo dedicato né tempo né tanto meno studi specifici, ma consideriamo l’idea di lasciare il nostro lavoro per appartenere al mondo della musica, di sicuro andremo incontro al fallimento. Di conseguenza, staremo male e di sicuro non ci imbarcheremo in altri progetti. Ed è propria questa l’altra faccia dell’entusiasmo, la frustrazione che invece di stimolarci a crescere, ci paralizza.

Considerando l’entusiasmo come il motore della nostra vita e l’anima dei desideri e’ auspicabile continuare ad entusiasmarci e a voler migliorare, ma con la consapevolezza che “non ne va della nostra vita ma e’ importante!”  Come e’ fondamentale trovare degli obiettivi che ci entusiasmino, ma devono essere realistici e non una fonte continua di frustrazione. Solo così potremmo avere quella  forza positiva che continuerà a crescere e autoalimentandosi ci potrà’ portare ad ottenere ciò’ che non avremmo mai pensato di raggiungere.

Scegliere o essere scelti: fa la differenza?

“Nella vita ci sono cose che ti cerchi e altre che ti vengono a cercare. Non le hai scelte e nemmeno le vorresti, ma arrivano e dopo non sei più uguale. A quel punto le soluzioni sono due: o scappi cercando di lasciarle alle spalle e ti fermi e le affronti. Qualsiasi soluzione tu scelga ti cambia, e tu hai solo la possibilità di scegliere se in bene o in male”

Giorgio Faletti

  Nelle relazioni d’amore lo scegliere o l’essere scelti risale all’educazione o alle esperienze della prima infanzia. Il genitore che educa il proprio figlio al pensiero libero lo educherà anche a scegliere e non ad essere scelto, se non ad essere scelto da chi piace. Purtroppo non sempre accade che le cose vadano cosi e allora la bassa autostima induce l’individuo ad accompagnarsi o a unirsi da chi lo sceglie o per timore di scegliere o solo per il fatto di non saperlo fare o perché la bassa autostima non permette non solo di scegliere, ma di fare scelte rilevanti che abbiano un peso specifico e siano all’altezza del nostro valore. E allora cosa succede veramente? Si e’ scelti! E si può essere scelti anche dal primo/a che capita creandosi poi conflitti derivanti dai diversi stili educativi o dai diversi ideali e modi di concepire la vita.

Ci dicono da subito una frase, ci insegnano e ci consegnano una specie di formula magica con cui, pare, dovremo fare i conti per quasi tutta la vita. La frase è: “fai una scelta”. Che detta così sembra apparentemente una delle massime espressioni della libertà individuale, e invece non è proprio da intendersi in questo modo. Intanto, “fare una scelta”, laddove non si hanno molte  scelte da fare, o che non si sanno fare, già’ può apparire  una imposizione e non una opzione, poi, nell’atto stesso della decisione intervengono componenti spicciole di ansia, di incertezze, di ripensamenti, per non parlare delle contaminazioni culturali, ambientali, sociali che forse inquinano la chiarezza e la linearità  della scelta. In particolare modo mi riferisco alle scelte in campo affettivo: e’ interessante scoprire in quante numerose occasioni siamo chiamati a scegliere; dall’iniziare una relazione al continuarla o a decidere di voler bene soprattutto a se stessi per poi poter anche scegliere di rimanere soli.

 Ogni giorno ci viene data una  agenda immaginaria personale, tuttavia  molti appuntamenti non sono consapevolmente scelti da noi, molti aspetti negativi  della vita non li decidiamo, alcuni eventi pesanti non li costruiamo, ma li subiamo. Molti momenti non ce li meritiamo, molto dolore ci arriva senza averlo chiesto e quando arriva, e trova un varco aperto, chiama altro dolore. In una nudità umana fragile ed esposta si consumano vite, e allora ci possono anche  aggredire malattie che nella loro cattiveria, senza pietà. Partecipiamo annichiliti e impotenti a situazioni che non richiedono nessuna forma di operatività, ma  solo allo scempio del morboso assistere, perché “altro” non c’è da fare… E allora, il tema è: qui, dove si annida “la scelta”?

E allora si cercano certezze, soluzioni più per la consuetudine a pensare che per la capacità di trovarle.

Quindi, non scegliamo. O scegliamo poco. E rischiamo di essere scelti. Non si sa da chi, se dalla chimica, da un calcolo di probabilità, o dalla biologia, da un gesto di amore, di tenerezza o  solo di unione, da un progetto divino, da una imprevedibile quanto superba mescolanza di cellule o dal timore di rimanere soli.

Oppure, più semplicemente, potremmo aver bisogno di scegliere di essere stupidamente,  sorprendentemente, umanamente, appena  un po’ più felici. E non avere il timore di presentare a noi stessi, questa felicità.

L’essere scelti talvolta può essere pero’ anche una fortuna, poiché si può essere scelti da chi ci ama più di quanto noi amiamo noi stessi e paradossalmente ci può insegnare ad amarci di più. Scegliere di abitare, di nutrire, di vivere questa felicita’. Perché, se davvero ci dovessimo dire la  sola verità possibile, nessuno vorrebbe soffrire, ammalarsi, sentirsi inutili, sentirsi offesi, violati. Siamo scelti e/o possiamo scegliere. Questa e’ la libertà’ che l’essere umano possiede che se ben gestita apre il varco alla serenità e ad una migliore qualità di vita.

GIORGIO FALETTI

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Desiderio, passione e noia

Il desiderio

Gli antichi Greci chiamavano desiderio . Lo volevano figlio della dea Afrodite  e fratello di Eros, lo slancio d’amore , e di Photos, il rimpianto nostalgico.

Fin dall’alba dell’Occidente, dunque, il desiderio si trova al crocevia tra l’amore, la bellezza, la passione, il senso di mancanza e di perdita. Di tutte queste regioni condivide qualche spazio, senza abitarne mai compiutamente uno solo. Proiettato verso il futuro nello slancio della passione, il desiderio conosce anche la malinconica contemplazione del passato, e si muove cosi tra un non più e un non ancora.

La realtà’ dell’incompiutezza, quindi, e’ scritta nel codice genetico del desiderio stesso. Come e’ incisa , nel suo stesso nome , una sorta di mappa del cielo.

Soddisfare il desiderio significa ( e’ ancora lo sguardo etimologico ad aiutarci) “ fare abbastanza “ (salis-facere) per placarlo: ma nello spazio dell’infinito e dell’indefinito non si potrà’ mai fare abbastanza.  Realizzare il desiderio ha a a che fare con l’atto di renderlo “cosa” (res) , espropriandolo di quel greto di incompiuta tensione che ne costituisce la bellezza.

Se desiderare e’ sentire una mancanza, e’ davvero cosi ovvio che questo significhi doverla riempire?

Gli esseri umani sono desiderio. Sempre. Il desiderio in se’ per se’, e’ la molla della vita. Ma si possono desiderare cose che ci fanno fiorire e si possono desiderare cose che ci fanno appassire. Il desiderio subito corre su ciò che ha una qualche convenienza per noi, ma le cose che hanno per noi convenienza sono molteplici e a volte non sono tra loro compatibili. Il desiderio e’ costretto a scegliere, prima o poi, un qualche ordine nella sequenza delle sue intenzioni.

E per far questo deve tener presente quale e’ il soggetto ultimo. Solo cosi può  “ordinare” i suoi oggetti interni.Come dire che ogni essere umano deve riflessivamente mettere in campo una qualche strategia di vita. E può accadere (anzi accade spesso) che una giusta strategia di vita gli vieti di scegliere una certa cosa e gli ingiunga di sceglierne un’altra. La bontà’ della scelta e’ a volte difficile e a volte facile. Ma spesso basta anche un po’ di buon senso per non sbagliare.

E ci sono poi i sensi più acuti di quelli che riguardano il mangiare e il bere e il fare l’amore? Sono infatti queste le due grandi fonti di piacere, degli esseri umani e sono quindi queste le due grandi “tentazioni” che fanno perdere talvolta il “ben dell’intelletto”. Qui il desiderio diventa facilmente “corto”  e potrebbe precipitare nella trasgressione: mentre il desiderio dovrebbe essere sempre “lungo” per seguire le indicazioni di una retta regola. Dovrebbe, cioè’, ascoltare quello che una buona riflessione gli può far vedere. Il desiderio, per quanto malato esso possa essere, nelle persone “normali” resta sempre libero nel suo fondo.

Dalla passione alla noia

Quando due persone si incontrano e si attraggono fortemente scatta la passione, la voglia di stare insieme sempre, di assaggiarsi, annusarsi, strusciarsi, stare in intimità, condividere tante cose, provare gelosia perche’ no, e desiderarsi tanto al punto tale da scordarsi talvolta si se stessi: questa e’ passione. Tutto gira intorno alla passione per l’altro /a e tutto diviene secondario….ma non dura a lungo  (fortunatamente?) come tutti vorremmo, altrimenti il nostro corpo, il soma, non ce la farebbe a compiere il corso della vita costantemente in uno stato adrenalinico e di allerta.

Poi quando una coppia inizia a convivere, è logico che  dapprima sia tutta un’ emozione. Ma è necessario che si tenga in conto anche “l’altra parte”: quella che ancora non ha avuto l’opportunità di vedere l’uno dell’altra.

Quando si tratta di ripartirsi i compiti e le spese, è comune che sorgano piccoli conflitti, cosi come nella gestione sei figli, cosi come nei diversi modi di vedere l’andamento domestico, precipitato delle proprie educazioni ed altri temi ancora.

E dopo i conflitti puo’ subentrare l’indifferenza. Frutto di una convivenza prolungata e poco intima, si può arrivare a sviluppare questo sentimento di apatia, disgusto e rifiuto per l’altro. È il momento in cui tutto quello che fa il partner risulta ai nostri occhi criticabile, migliorabile e sbagliato. Discutiamo per sciocchezze e non gliene lasciamo passare una. Finché non arriva il giorno in cui, nel vero senso della parola, “non ci fa più caldo né freddo”. Ci rassegniamo e viviamo infelici in uno stato di noia perenne.

Verso la noia e la routine

La routine quotidiana, la mancanza di entusiasmo e di spontaneità, l’assenza di sorprese e interessi, fondamenta fragili, la mancanza di passioni comuni… Sono molte le cause della noia. Ma, dato che per discutere servono due persone, la causa della noia in una relazione è anch’essa dovuta a entrambi i membri della coppia.

Se ci si sente afflitti o senza voglia di mettere piede fuori casa, sarebbe opportuno farlo sapere all’altro. Può darsi che non serva solo per sfogarsi, ma che possa anche aiutare il partner a capire come comportarsi. Allo stesso modo, se si trasforma in routine tutto quello che riguarda la coppiaè normale che alla fine si sfoci nella noia

La mancanza di fiducia, lasciarsi trasportare dalla gelosia, l’insicurezza, il senso d’inferiorità o la mancanza di onestà sono alcuni degli atteggiamenti che spesso tendiamo ad adottare quando non siamo felici in una relazione. Tutto ciò sfocia nella rottura o nella noia. Per questo motivo, se si vuole che la relazione continui, e’ necessario decidere di  parlare e/o di migliorare la comunicazione di coppia.

Un altro errore molto comune che riguarda la vita di coppia e la induce alla fine, oltre alla  mancanza di comunicazione, è la mancanza di sostegno reciproco. Spesso quando abbiamo un problema e pensiamo di parlarne, ci tiriamo indietro perché ci convinciamo che l’altro non ci capirebbe. E questa situazione peggiora quando ne parliamo e non ci sentiamo sostenuti, protetti o compresi dal partner. Per evitarlo e’ necessario essere empatici.

D’altra parte, l’avere poco tempo a disposizione è un altro grande nemico di una relazione sana. È importante che all’interno della relazione ci si prenda qualche minuto al giorno per discorrere o un contatto o una carezza o il contatto visivo… contribuirà in modo decisivo a riempire di energia entrambi. Lo stress o le troppe ore passate al lavoro sono in genere dei fattori di alto rischio.

Comunicare e’ la soluzione ottimale

Avere una relazione di coppia salutare e stabile non è un compito semplice e richiede uno sforzo e un impegno consapevole da parte di entrambi.

Ai giorni d’oggi, la mancanza di comunicazione in una relazione è l’origine del suo fallimento. Se c’è qualcosa che dà fastidio dell’altro, dalle piccole alle grandi cose, la miglior soluzione è comunicarlo. Non con un atteggiamento aggressivo, ma con l’atteggiamento proprio di chi desidera manifestare i propri pensieri. Il successo non deriva solo dal sottolineare gli aspetti negativi dell’altro/a (che deve comunque prendere in considerazione le critiche e per quanto e’ possibile modificare alcuni aspetti). La cosa più importante è il sentimento. Per questo motivo, e’ necessario parlare anche delle cose positive e non dimenticare di sottolineare ciò che l’altro/a fa e che ci piace.

Il silenzio non si sente, ma riempie tutto.

Rendendo l’altro consapevole di quello che dà fastidio, forse si possono limare o modificare quelle abitudini che  disturbano. E, se non accade, non andrebbe preso sul personale; semplicemente, cercare di capire che nessuno è perfetto. E, proprio come il partner, anche l’altro/a ha degli aspetti più stravaganti.

Al contrario, se viene scelto il silenzio, non solo si omettono delle informazioni che possono arricchire il legame, ma il malessere interiore crescerà sempre di più. E, alla fine, si scoppia per ogni sciocchezza. Comunicare è vivere. E ciò che non si dice, ciò che l’altro non sa, è come se non esistesse.

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Il cuore e’ una ricchezza che non si vende  e non si compra……si dona

Si nasce cosi’ con un cuore che batte sin dalle origini, che ci consente di vivere: ma non e’ solo un organo che pulsa e’ qualcosa di più, e’ la sede dell’amore, quello puro.

C’e’ chi in pancia lo ha già arricchito, c’e’ chi no: c’e’ chi ha già ricevuto il giusto nutrimento da bimbo e c’e’ chi e’ meno fortunato, c’e’ chi e’ costretto a crearsi un cuore duro, corazzato o chi addirittura lo ha spento prima che la natura lo voglia.

Chi ha cuore si dona, non fa eccezioni, non fa cernite, certamente e’ una persona più esposta delle altre, ma lo fa perché lo sente, perché gli/le piace farlo, perché lo desidera. Tutto ciò davvero non si può comprare ne’ tantomeno vendere, perché e’ un patrimonio di grande ricchezza che appartiene esclusivamente all’individuo; si può donare…..quello si.

E allora chi ha “cuore” può imbattersi in chi ha bisogno del suo cuore, delle sue cure, delle sue attenzioni e allora si fa un dono senza pretendere nulla in cambio. Ma può anche succedere che chi ha cuore e vuole donare, venga respinto, perché dall’altra parte, pur essendoci un bisogno tangibile, non c’e’ il desiderio di ricevere (magari lo vorrebbe comprare) o ancor peggio c’e’ l’invidia che qualcuno sappia donare un parte si se’ e lui/lei non lo sappia fare.

Il donare senza avere nulla in cambio lo considero una delle più alte e sublimi capacita’ dell’essere umano: purtroppo non sempre si e’ compresi, non sempre si e’ accolti, non sempre si e’ accettati, ma si va avanti perché si ha un “ cuore” che riconosce i bisogni altrui scavalcando corazze e maschere, che certuni mettono per poter vivere decentemente.

Ma chi ha “cuore” lo deve anche proteggere. E’ una protezione salvifica soprattutto dai vampiri energetici, da coloro che pur riconoscendo nell’altro la presenza di un “cuore” mirano ad attaccarlo, a giocare con esso, a succhiarlo fino a che il possessore di “cuore” lo permetterà.

I vampiri energetici si devono nutrire del “cuore” per sopravvivere al tempo: e’ una lotta tra il vampiro e il tempo in cui se il vampiro non ha il “cuore” di qualcun altro il  suo tempo si riduce, se invece riesce a nutrirsi vivrà di più.

Invece l’accettazione del cuore donato, e’ una delle altre sublimi capacita’ dell’essere umano; e’ l’atteggiamento umile di chi sa che ha bisogno delle cure e delle attenzione e dell’amore dell’altro per poter vivere. E’ un grande atto di umiltà che comporta la messa in campo di tutto se stesso. E’ cosi che si creano le relazioni d’amore in senso esteso, chiunque esso/a sia, di qualunque eta’, sesso, etnia o religione.

E allora il cuore si dona ma non si vende.

Il cuore non lo si tiene tutto per se’ poiché’ sarebbe una forma egoistica che di certo non appartiene a chi ha “cuore”.

La separazione comporta una sofferenza che si puo’ superare

La separazione costituisce un evento dal potenziale altamente stressogeno,

Non tutti si separano in egual modo perché ognuno di noi ha una storia e un vissuto personale che determinano percorsi di separazione differenti: alcune coppie ci arrivano attraverso riflessioni condivise e scelte ponderate, per altre l’interruzione del rapporto giunge dopo  litigi e conflittualità, per altre ancora è frutto di una decisione unilaterale.

E’ superfluo dire che la separazione genera uno stress nell’essere umano e spesso può essere considerato un micro lutto. Il potenziale destabilizzante non riguarda solo la decisione di separarsi come evento unico, ma coinvolge l’intera gamma di esperienze emotivamente difficili che solitamente precedono e seguono la fine di una storia. Le conseguenze collaterali, come il cambio di residenza di uno dei partner, la modifica delle modalità e dei tempi di frequentazione dei figli, le implicazioni economiche, i cambiamenti relazionali costituiscono ulteriori fonti di stress, che si sommano alla dolorosa necessità di rielaborare il significato delle proprie scelte di vita e la propria identità.

Inizialmente la separazione genera nell’individuo incredulità, negazione e sofferenza,destabilizzazione ma e’ necessario poi  riuscire a mobilitare una quota di risorse che consente di ritrovare un soddisfacente equilibrio emotivo e psicologico. Purtroppo pero’ spesso può emergere un’incapacità di voltare pagina, di riprendere in mano la propria esistenza, di superare il dolore legato alla separazione. Si tratta di situazioni in cui la sofferenza soggettiva va ben oltre la fisiologica elaborazione della fine di un legame. La sintomatologia è molto più intensa e duratura, spesso accompagnata da pensieri intrusivi, disturbi del sonno, stati di costante tensione e iper-arousal, evitamento di stimoli (comportamenti, luoghi, contesti e/o persone) associati all’evento traumatico. La fissazione su alcuni elementi della separazione sembra precludere la possibilità di concentrarsi su altro e l’intera esistenza dell’individuo finisce per ruotare attorno a questa tematica. (Riva)

In questi casi è possibile che le dinamiche stressogene della separazione s’innestino in modo particolare su pregresse caratteristiche di funzionamento dell’individuo, assumendo una valenza traumatica. Di seguito i segnali più ricorrenti di questa dolorosa condizione:

  • pensieri intrusivi, ossia ricordi involontari legati ai momenti di maggiore stress che si presentano all’improvviso, rinnovando disagio e sofferenza;
  • disturbi del sonno (fatica ad addormentarsi, sonno leggero, incubi e/o risvegli precoci);
  • evitamento di stimoli che richiamino alla mente la relazione con l’ex partner (passare di fronte al ristorante abituale, incontrare amici comuni, ecc.), generando ansia;
  • difficoltà di concentrazione;
  • disagi somatici (problemi di stomaco, cefalea, tensione e/o stanchezza cronica);
  • disperazione e senso di vulnerabilità derivanti dalla non accettazione della separazione che impediscono alla persona di pensare al futuro in modo adeguato con il rischio conseguente di manifestare irritazione verso l’entourage familiare e amicale e/o indifferenza verso cose che in precedenza erano importanti.

La psicoterapia, attraverso il sostegno psicologico, può rivelarsi fondamentale per non cronicizzare la situazione di stallo e sofferenza. Infatti quando un individuo assiste o si trova a vivere un evento traumatico (un conflitto molto elevato, una perdita, un abbandono, la scoperta di un tradimento, ecc.), il ricordo connesso si “congela” nella mente nella sua forma ansiogena originale nello stesso modo in cui è stato vissuto. L’informazione “congelata” non riesce a essere elaborata “naturalmente”, come avviene per gli eventi di minore impatto (un litigio di poco conto, una piccola frustrazione, ecc.), e quindi rischia di continuare a condizionare in senso patologico il funzionamento dell’individuo. Questa e’ la fonte di sofferenza maggiore. Con la psicoterapia si cerca di riorganizzare l’evento traumatico come fossero tasselli di puzzle che vanno a ricomporre un unicum. Inoltre anche la terapia dell’Emdr  puo’ fornire un aiuto importante perché a fronte del ricordo del trauma e dell’esperienze ad esso connesse non si provi più quel gradiente di sofferenza che blocca l’ individuo ad andare avanti e a ricostruire una vita migliore.

I DISTURBI DI PERSONALITA’ BORDERLINE (BPD) E IL TRATTAMENTO CON L’EMDR

I soggetti a cui è diagnosticato il disturbo di personalità borderline (BPD) di solito soffrono di sensibili menomazioni nelle loro abilità funzionali. Impulsività, instabilità affettiva, difficoltà interpersonali e problemi di identità sono i caratteri più tipici di questo disturbo, che frequentemente porta a comportamenti suicidi o para-suicidari. Se il BPD è stato tradizionalmente considerato come cronico e durevole, la ricerca recente ha dimostrato che la sua remissione è possibile nel tempo e che la psicoterapia può accelerare questo processo. L’eziologia del BPD è stata associata ad abusi infantili e ad affettività inadeguata. Dato il significato di abuso e trauma infantile, l’EMDR – Eye Movement Desensitization and Reprocessing, come terapia del trauma riconosciuta, può essere una opzione ragionevole di trattamento per la BPD. 

Le teorie correnti indicano che l’eziologia del BPD può essere collegata a fattori genetici o neurobiologici, ambiente familiare (incluso attaccamento, patologie genitoriali e abusi infantili), e fattori sociali. L’incidenza di abusi sessuali all’interno di questa popolazione è alta . Canarini e colleghi (1989) hanno osservato che il 72% degli individui con BPD riferivano di abusi verbali, il 48% di abusi fisici e il 26% abusi sessuali. Allen (2003) ha ipotizzato che coloro che avevano sperimentato traumi fossero meno suscettibili ad avere una remissione degli altri e ha raccomandato ulteriori indagini in tal senso. Un abuso infantile precoce (ad es. età media 4 anni) è stato in particolare associato a diagnosi di BPD e a disturbi da stress post-traumatico (PTSD), il che ha indotto alcuni a ritenere che una diagnosi di disturbo post-traumatico da stress complesso fosse più adatta in questi casi . Poiché il trauma è un aspetto saliente del BPD, ci si aspetterebbe un trattamento volto ad affrontare esperienze traumatiche, se si vuole avere un effetto benefico. Il modello di rielaborazione adattiva dell’informazione , che è il quadro teorico dietro l’EMDR, chiarisce l’impatto di esperienze traumatiche sulla funzionalità del paziente e fornisce una base razionale per l’utilizzo dell’EMDR nel trattamento del BPD ( Shapiro 2001).

Il modello di rielaborazione adattiva dell’informazione considera gli eventi traumatici tipicamente associati al disturbo post-traumatico da stress, come “grandi eventi T”. Gli abusi fisici e sessuali infantili, spesso sperimentati da individui con diagnosi di disturbo di personalità’ borderline, si inseriscono chiaramente in questi “grandi eventi T”.

Le risposte ambientali invalidanti associate allo sviluppo del BPD  che vanno oltre l’abuso fisico ed includono esperienze pervasive di umiliazione, rifiuto, scarsa considerazione, sarebbero considerate “ traumi con la “t” minuscola. Inoltre si è ipotizzato che l’incapacità del genitore di regolare l’emozione negativa di un figlio attraverso la possibilità di rispecchiare se stesso, può condurre ad una escalation emozionale che si può considerare traumatica . La successiva mancanza di affettività nella prima infanzia può limitare l’abilità del soggetto nello sviluppare abilità auto-calmanti e auto-regolanti, abilità che mancano spesso in soggetti con diagnosi di disturbo di personalità borderline.

Nel corso di studi controllati l’EMDR risulta aver affrontato con successo il disturbo post-traumatico da stress e altri traumi. Perciò, data la prevalenza di traumi all’interno della popolazione sofferente di disturbi di personalità borderline, l’EMDR sembrerebbe un metodo adeguato per curare i fattori esperienziali che contribuiscono a questo disturbo (es: traumi precoci).

Eventi passati rielaborati non producono più le emozioni disfunzionali che avevano creato le valutazioni negative di sé e le percezioni e reazioni interpersonali negative.

L’obiettivo clinico, in conclusione,  non è solo di ridurre i sintomi manifesti, ma di facilitare lo sviluppo di una sana vita adulta, in grado di trovare sollievo, provare l’intera gamma di emozioni e mantenere un senso adattivo di sé e una coscienza esterna. Oltre alle ovvie implicazioni sociali, queste abilità sono necessarie anche per gettare le fondamenta di modelli genitoriali potenzialmente necessari per contribuire ad arrestare la trasmissione di sofferenza da una generazione all’altra. (Shapiro)

Come rinascere per vivere meglio

  1. Ciò che diciamo principio

spesso è la fine, e finire

è cominciare.

(Thomas Stearns Eliot)

La depressione arriva e s’insinua nella vita di chi ne soffre in modo lento e graduale e, a poco a poco, divora la voglia di vivere. L’apatia, la stanchezza, la fatica di prendersi cura di sé, la perdita di piacere e di interesse per la vita, l’isolamento e il bisogno di stare soli sono solo alcuni dei sintomi di questo stato emotivo.

Pochi disagi ricordano da così vicino la morte e ci mettono in contatto con il vuoto e la mancanza di senso. Si precipita nel passato,vi si implode dentro e non resta spazio né per il presente né per il futuro.

Ma la depressione, come qualsiasi sintomo o stato di crisi, contiene in sè il seme dell’opportunità e della rinascita.

La depressione diventa una modalità che protegge dall’entrare in contatto col male che fa questa antica ferita. Paradossalmente, preferiamo ammalarci che ammettere di non essere stati amati in modo soddisfacente e che molte scelte attuali della nostra vita sono legate a doppio filo a questo passato.

Paradossalmente, proprio contattando la sensazione di annientamento, si può tornare a trovare il gancio con la realtà, accorgendosi di essere vivo e di poter compiere scelte attive verso la propria trasformazione ed evoluzione. Manifestando il dolore e la rabbia per il torto subito, smettendo di negare ciò che è stato, torniamo ad essere noi gli unici responsabili della nostra vita. Individuiamo i nostri veri bisogni e li separiamo dai condizionamenti esterni, dicendo NO alle aspettative altrui e SI a noi stessi. Rinunciamo agli ideali di perfezione (solo se sono perfetto, sarò amato) e  impariamo a accettarci e amarci per ciò che siamo.

La depressione, come ogni sintomo, è un’alleata preziosa che ci indica la via smarrita per permetterci di ritrovare il nostro vero Sè, la nostra verità e forza interiore.

E’ un cammino estremamente doloroso, faticoso e impegnativo, ma alla fine di esso, smettendo di cercare approvazione nell’altro e rinunciando all’illusione che un giorno qualcosa o qualcuno ci risarcirà, impariamo a darci valore, ritroviamo il diritto di esistere, scopriamo di essere in grado di salvarci da soli.

Rinascita. Ma per risorgere, per rinascere ad un nuovo me stesso, ad una nuova combinazione unica ed irripetibile del nostro assetto interiore psichico e spirituale abbiamo bisogno che prima sia tramontato. Bisogna tramontare, morire, cadere, per vedere l’alba del nuovo giorno. Nietzsche lo sapeva bene quando poeticamente scriveva “Amo coloro che tramontano”.

MA COME SI FA A STARE MEGLIO?

Attraverso la resilienza! Che cosa e’ la resilienza? Per resilienza si intende quando cadendo, ti pieghi ma non ti spezzi!Essa aiuta ad identificare le cause di un problema (affinché non si ripresenti più in futuro) e a controllare le emozioni e gli impulsi quando ci si trova in una situazione critica. Chi è resiliente, inoltre, ha anche un ottimismo realista, guarda positivamente al futuro, ha un’idea positiva della vita, ha la capacità di trovare sempre nuove sfide e nuove opportunità per raggiungere una maggiore soddisfazione.

D’altra parte, essere resilienti è sinonimo di buona salute (non solo fisica, ovviamente): le persone di questo tipo hanno una migliore immagine di se stesse, si criticano meno, hanno più successo nello studio e nel lavoro, incontrano più soddisfazione nelle relazioni e sono meno predisposte a soffrire di depressione, nonché maggiormente facilitate nell’uscirne. Il nostro corredo emozionale è ampio, si muove dalla gioia all’angoscia, e questo ha un significato. La cultura del sorriso, del pensiero positivo a tutti i costi, della felicità che ha imperversato negli ultimi decenni, ha tolto profondità alla vita psichica e spessore ai nostri stati d’animo. Inducendo a farci perdere contatto con parti di noi, sfuggendole o banalizzandole. Facendoci credere che la sofferenza vada solo curata, anestetizzata e annullata. Indagini recenti mostrano invece che le esperienze traumatiche smuovono, nella maggioranza dei casi, una rinascita psicologica positiva. Dopo un trauma, per quanto devastante, possiamo migliorare la nostra vita, e vivere esperienze di miglioramento che certe volte si rivelano intense come relazioni più profonde, senso di forza interiore, individuazione di nuove possibilità per la propria esistenza.

Si parla a tal proposito di rinascita post-traumatica. Secondo gli psicologi statunitensi Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun, dell’università del North Carolina, il trauma smuove un progresso personale quando riesce a sfidare le convinzioni, le credenze consolidate nel tempo. Abbiamo bisogno di scuotere e smantellare la nostra visione del mondo, la nostra stessa identità, per ricostruirci in modo nuovo. Più vacilliamo, più lasciamo andare le idee e ripartiamo da zero, meglio possiamo riorganizzarci per inseguire altre opportunità, aprire nuove vie.

Dopo perdite importanti, eventi avversi, accadimenti “sismici” – dal punto di vista psicologico -possiamo elaborare ciò che è successo, e arrivare, proprio attraverso lo sconforto, a vederci come non lo abbiamo mai fatto, a formulare domande alle quali non siamo mai arrivati. Lo smarrimento ci costringe a riesaminare il modo di pensare, di dare peso alle cose, può farci evadere dalla banalità degli stessi pensieri. La sofferenza permette di costruire nuovi obiettivi, schemi, significati. Di essere creativi. Soprattutto può offrire l’occasione di ricostruire noi stessi in modo più autentico, più fedele al nostro Io e al suo percorso di vita. Che è unico.

Ma alcuni psicologi, hanno scoperto che un evento destabilizzante può portare con sé anche benefici significativi. Secondo uno studio cominciato negli anni ’90 da Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun, ricercatori della University of North Carolina, la rinascita post-traumatica coinvolgeva il 70% dei pazienti che, sopravvissuti ad un trauma, stavano affrontando una trasformazione psicologica positiva: possono crescere empatia ed altruismo, portando il soggetto ad agire di più nell’interesse del prossimo; si può sviluppare un senso di forza interiore legato, di conseguenza, a relazioni più gratificanti e anche, in alcuni casi, allo sviluppo di una maggiore consapevolezza spirituale.

Il termine “crescita post-traumatica” è stato coniato negli anni ’90 dagli psicologi Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun per descrivere i casi di persone che avevano vissuto una profonda trasformazione mentre affrontavano diverse tipologie di trauma e situazioni di vita difficili. Circa il 70% dei sopravvissuti ad un trauma ha riportato una crescita psicologica positiva, come ha rivelato la ricerca.

La crescita dopo un trauma sia fisico che psichico può assumere forme diverse, inclusi una maggiore riconoscenza verso la vita, l’individuazione di nuove possibilità per la propria esistenza, di nuovi sentieri, relazioni interpersonali più gratificanti, una vita spirituale più ricca e una connessione con qualcosa di più grande, un senso di forza interiore.

DOPO UNA FORTE SOFFERENZA SI PUO’ DAVVERO RINASCERE?

Com’è possibile che dopo la sofferenza possiamo non solo ritornare al nostro stato precedente, ma anche migliorare profondamente le nostre vite? E perché alcune persone restano schiacciate da un trauma, mentre altre rifioriscono? Tedeschi e Calhoun spiegano che la crescita post-traumatica, in qualunque forma si presenti, può essere “un’esperienza di miglioramento che per alcune persone si rivela molto profonda”.

I due ricercatori dell’Università del North Carolina hanno creato il modello più diffuso finora per descrivere il processo di crescita post-traumatica. Secondo tale modello, le persone sviluppano naturalmente e si affidano ad una serie di credenze e supposizioni che si sono formate sul mondo. Per far sì che dopo il trauma ci sia una crescita, l’evento traumatico deve necessariamente sfidare tali convinzioni. Secondo Tedeschi e Calhoun il modo in cui il trauma distrugge la nostra visione del mondo, le nostre opinioni e la nostra identità, equivale ad un terremoto, le fondamenta dei nostri pensieri e delle nostre convizioni vanno in mille pezzi a causa della forza dell’impatto traumatico subito. Siamo scossi, quasi letteralmente, dalla nostra percezione ordinaria delle cose e ci tocca ricostruire noi stessi e il nostro mondo. Più vacilliamo, più lasciamo andare le nostre precedenti identità e convinzioni e ripartiamo da zero.

Un evento psicologicamente “sismico” può far vacillare, minare o ridurre in macerie molte delle strutture schematiche che hanno guidato la nostra comprensione delle cose, le nostre decisioni e il senso che diamo al mondo.

La ricostruzione fisica di una città che avviene dopo un terremoto può essere paragonata all’elaborazione cognitiva ed alla riorganizzazione che un soggetto vive subito dopo un trauma. Una volta che le strutture di base dell’io sono state sconvolte, siamo pronti per inseguire nuove (e forse più produttive) opportunità.

Il processo di ricostruzione funziona un po’ così: dopo un evento traumatico, come una malattia grave,la perdita di una persona cara o un abbandono, i soggetti elaborano l’accaduto intensamente, pensano continuamente a quello che è successo e generalmente hanno reazioni emotive molto forti.

È importante notare che la tristezza, il dolore, la rabbia, l’ansia sono reazioni molto comuni al trauma e la rinascita si presenta insieme a tali emozioni contrastanti, non al loro posto. Il processo di rinascita può essere considerato come un modo per adattarsi a circostanze particolarmente avverse e per comprendere sia il trauma che i suoi effetti psicologicamente negativi.

La ricostruzione può essere un procedimento incredibilmente impegnativo. Il lavoro di crescita richiede un distacco, un allontanamento dagli obiettivi più radicati, dalla propria identità, dalle proprie supposizioni mentre si costruiscono nuovi obiettivi, nuovi schemi e significati. Può essere un percorso arduo, atroce ed estenuante. Ma può aprire la porta ad una nuova vita. Una persona sopravvissuta ad un trauma inizia a riconoscere i propri progressi e rivede la propria definizione di sé per adattarsi alla forza e alla saggezza che ha scoperto di possedere. È una persona che può ricostruire se stessa in un modo più autentico, più fedele al suo io profondo e al suo percorso di vita unico e scegliere relazioni piu’ appaganti.

Rinascita  creativa.

Una perdità può tradursi in una rinascita creativa. Ovviamente è importante notare che il trauma non è necessario né sufficiente alla creatività. Le esperienze traumatiche sono sempre tragiche e psicologicamente devastanti, a prescindere dal tipo di rinascita creativa che ne consegue. Queste esperienze possono condurre ad una perdita a lungo termine, ma portare anche ad una conquista. Infatti spesso la perdita e il guadagno, la sofferenza e la rinascita, coesistono.

Dato che le avversità ci costringono a riesaminare le nostre convinzioni e priorità, possono aiutarci ad evadere dal nostro abituale modus pensandi incoraggiando la creatività, come spiega Marie Forgeard una psicologa del McLean Hospital e della facoltà di Medicina di Harvard, che ha condotto una lunga ricerca sulla rinascita post-traumatica e sulla creatività.

Siamo obbligati a riconsiderare le cose che abbiamo sempre dato per scontate, siamo costretti a pensare a cose nuove e a persone nuove. Gli eventi negativi possono essere così forti da obbligarci a formulare domande a cui altrimenti non saremmo mai arrivati.

La creatività può diventare anche una sorta di strategia per gestire l’esperienza difficile. Alcune persone potrebbero scoprire che l’esperienza traumatica le costringe a mettere in discussione le loro idee sul mondo e quindi a pensare in modo più creativo. Altri potrebbero scoprire di avere una nuova (o rinnovata) motivazione ad impegnarsi in attività creative. Altri ancora, che hanno già un forte interesse di base per il lavoro creativo, potrebbero trovare nella creatività il modo migliore per ricostruire la propria vita.

 Si muore tutte le sere, si rinasce tutte le mattine: è così. E tra le due cose c’è il mondo dei sogni.

(Henri Cartier-Bresson)